Quando il principio dovrebbe prevalere
Recentemente ha fatto discutere – non senza l’immancabile quanto inutile indignazione – il NO del Consiglio nazionale all’ulteriore adeguamento delle rendite AVS al carovita. Essendo poi in campagna elettorale, non si è mancato di puntare il dito contro i deputati ticinesi che si sono schierati con il fronte contrario, elogiando implicitamente – di riflesso – quelli che hanno votato a favore. I primi, sostenitori di un pragmatismo disposto a sacrificare un aumento della rendita pro capite di 7 fino a 14 franchi al mese, sull’altare di un risparmio per la Confederazione pari a poco meno di mezzo miliardo. I secondi, favorevoli invece al principio che gli anziani vadano aiutati in qualunque occasione e costi quello che costi.
Due posizioni entrambe difendibili…
Ambedue le posizioni hanno una giustificazione. Da un lato, è vero che un aumento della rendita mensile di 7 franchi non cambia la vita del pensionato, mentre mezzo miliardo di franchi pesa ben più sensibilmente sul bilancio della Confederazione (e sui conti già in rosso dell’AVS). D’altro canto, si sa che la rendita AVS – non essendo volta a mantenere da sola il pensionato, bensì a essere accompagnata dagli altri due pilastri (cassa pensione e risparmio privato) – è decisamente piuttosto misera e, per chi vive di quella soltanto, ogni introito in più è benvenuto.
… ma con qualche riserva
Innanzitutto, va detto che l’ulteriore aumento sarebbe andato ad adeguare maggiormente le rendite al carovita. Infatti, con l’aumento deciso da Berna del 2,5% a partire dal 1° gennaio 2023, contro un rincaro previsto del 3%, di fatto l’incremento si rivela essere una diminuzione dello 0,5%. Con l’ulteriore adeguamento respinto dal Consiglio nazionale, si sarebbe almeno in parte ovviato a questo peggioramento.
Sull’altro fronte, si è fatto anche leva sulla solita solfa che l’aumento sarebbe andato indiscriminatamente anche a chi «non ne ha bisogno». Questo ragionamento – secondo me assurdo, idiota e figlio dell’innata invidia che la sinistra coltiva nei confronti di chi guadagna (e, di conseguenza, paga le imposte) – ha perlomeno due falle: capo primo, se 7 franchi al mese fanno sì comodo ma non sono determinanti per chi vive di sola AVS, ancora meno lo sono per chi dell’AVS potrebbe fare a meno. Secondo – e lo si dimentica spesso e volentieri – sono i benestanti e i meglio pagati, unitamente ai datori di lavoro, ovviamente, a versare in assoluto la maggior parte dei premi all’AVS, mentre la rendita è uguale per tutti. Il principio di sussidiarietà su cui si basa l’AVS, infatti, vuole che, mentre i premi sono versati in percentuale sui salari e quindi più guadagni e più paghi, le rendite sono fisse. È giusto? È sbagliato? Pensatela come volete ma, almeno per il momento, è così.
Così, ancora una volta, per non dare 7 franchi in più a «chi non ne ha bisogno», non li si danno a chi invece farebbero estremamente comodo. Ci sono diversi modi per illustrare questo atteggiamento: uno, tipicamente ticinese, è «Non importa se il Lugano non vince, l’importante è che perda l’Ambrì» (o viceversa). Un altro è «tagliarsi gli attributi per far dispetto alla moglie» per non citare il biblico «muoia Sansone … con tutti i Filistei». Ma che si chiami Lugano, Ambri, marito o Sansone, non posso fare a meno di notare un certo masochismo in questo atteggiamento.
Il contesto fa perdere tuttavia qualsiasi ragione al NO
Ma è il contesto in cui ci si trova a dibattere che fa perdere qualsiasi ragione al fronte del NO. Lo scorso anno si è tranquillamente elargito il secondo miliardo «di coesione» all’UE, lo scorso mese abbiamo appreso dalla stampa che, in un anno, nel 2022, la Svizzera ha stanziato circa 1,3 miliardi di franchi per misure di aiuto a favore dell’Ucraina, e non passa settimana che sentiamo di qualche decina di milioni a favore dell’una o dell’altra nazione estera, il che porta a ben più dello scarso mezzo miliardo previsto per il sia pure inconsistente aumento pro capite dell’AVS. Con la differenza che i primi sono destinati a realtà lontane di cui l’unico riscontro che la nostra popolazione ha, è spesso il comportamento criminale di buona parte di coloro che – sempre a suon di miliardi – ospitiamo nell’ambito dell’asilo, mentre i 450 milioni che rifiutiamo di elargire perché irrilevanti sul bilancio dei singoli beneficiari, sarebbero destinati ai NOSTRI anziani.
Fintanto che a Berna si scialacquano miliardi a destra e a manca ignorando le priorità della nostra gente «perché la Svizzera è un paese ricco e può permetterselo», non possono esserci ragioni per far prevalere un discutibile pragmatismo sul sacrosanto principio della previdenza vecchiaia indigena.
Solidarietà privata, sano egoismo pubblico
La popolazione svizzera è generosa e solidale. Lo dimostra l’immancabile pronta risposta milionaria alle azioni della Catena della solidarietà quando si tratta di aiutare popoli colpiti da catastrofi, o anche il suo sostegno finanziario alle innumerevoli associazioni umanitarie o pseudo tali che a scadenze regolari chiedono oboli e donazioni. Ma questa generosità – che, è giusto sottolineare, è manifestata con i propri soldi – non deve essere traslata oltremisura sulle casse pubbliche le quali, al contrario, presuppongono la gestione da parte di deputati popolari di denaro che loro non appartiene. Una sana gestione del denaro pubblico non significa chiudere completamente le casse, bensì valutare ogni uscita il più possibile come un investimento. Una sorta di sano egoismo che porti a dare priorità agli interessi del proprio paese, non escludendo aiuti e sostegni all’estero, ma sempre sula base di un «do ut des», dare per avere.
Quindi, basta sussidi ad annaffiatoio senza contropartita ma, per esempio, in cambio di accordi di mutuo – ma anche solo di nostro – interesse (per esempio, la ripresa degli immigranti clandestini respinti). E, soprattutto, che non impediscano la realizzazione di misure a favore del benessere del popolo svizzero. Non fossero che 7 franchi mensili in più ai nostri «vecchietti».
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