Concerti dell’Auditorio tra tradizione e stravaganze

Mar 7 • Sport e Cultura • 2159 Views • Commenti disabilitati su Concerti dell’Auditorio tra tradizione e stravaganze

Spazio musicale

 

Quando si organizza una stagione concertistica su un tema molto inconsueto o addirittura stravagante è prudente inserire di quando in quando qualche composizione di repertorio, per non inimicarsi la parte del pubblico affezionata alla consuetudine. Il concerto dell’Auditorio del 14 febbraio è entrato interamente in questo concetto. Piano con pedaliera, armonica a bocca e altre specialità hanno ceduto il posto al violino. A suonarlo è stata chiamata Veronika Eberle, che si è esibita in un grande capolavoro come il Concerto per violino e orchestra op. 64 di Mendelssohn. Ne ha dato una versione composta ma molto sentita. Nella sua prestazione ho notato in particolare due qualità: l’esattezza dell’intonazione, anche nelle note più acute (assai importanti in un lavoro che fa effettuare spesso allo strumento solista ardite arrampicate) e la bellezza della cavata, che è intensa e limpida.

 

Oltre al concerto di Mendelssohn il programma comprendeva l’Ouverture nello stile italiano D 590 di Schubert (un brano mediocre, in cui il compositore si addentra in uno modo di scrivere musica che non è il suo, tradendo l’impaccio), le Variazioni su un tema di Haydn op.56° di Brahms e le Danze di Galanta di Kodaly. Bene ha diretto Nicholas Milton e bene ha suonato l’Orchestra della Svizzera italiana. Il pubblico, come sempre numerosissimo, ha apprezzato soprattutto la slanciatissima e calibratissima esecuzione delle Danze di Galanta.

 

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La seconda sinfonia di Schubert, posta al termine del concerto a  del 21 febbraio, si apre con una curiosa introduzione, che passa da un tono solenne e pomposo, con i maestosi accordi iniziali e le discese rapide dei violini e delle viole, a un velato sentimento di tristezza, accennato dalle note pungenti dei flauti in zona acuta. Se l’introduzione, come detto, non ha una impostazione espressiva precisa, il discorso cambia con l’”allegro vivace”, dove il primo tema, a crome staccate, energico e stringato, è il grande dominatore e porta uno spirito quasi beethoveniano. Benché qui Schubert operi in un campo che non gli è congeniale e le sue risorse non sembrino all’altezza delle intenzioni, gli esiti sono complessivamente positivi e trascinanti. Scarsa importanza, nell’architettura del tempo, ha il secondo tema, che è sereno, disteso, “dolce” (l’aggettivo sta scritto sulla partitura), già tipicamente schubertiano, ma che resta come stretto nella morsa del primo.

 

Il secondo tempo è un tema con variazioni costruito secondo criteri formali rigorosi. Il motivo base è garbato, grazioso, un poco manierato, da buon tempo antico. Le variazioni non mancano di eleganza e finezza ma, per così dire, applicano molto poco l’arte del variare. Dalla melodia del tema si staccano in misura limitata, fatta eccezione per la quarta. Sono tutte in “piano” o “pianissimo” e ognuna comprende due parti diligentemente ripetute. Alla fine nasce un senso di monotonia.

 

Assai originale è il minuetto, dove gli archi, sotto accordi ben ritmati degli altri strumenti, salgono e scendono in quello che sembra un rude brontolio; ma nel trio, per contrasto, la musica diventa fine e delicata. Un indiavolato “presto vivace” conclude la sinfonia. Il primo tema è capriccioso e spensierato, una caratteristica che, subito dopo, gli svolazzi del flauto e dell’oboe mettono ulteriormente in evidenza. Anche il secondo tema è assai estroso e pertanto non contrasta con il primo ma si pone sulla stessa linea. In generale il tempo sprigiona una energia che lo rende elettrizzante. Il suo valore viene peraltro sminuito da un uso eccessivo del ritmo, molto semplice, dell’inizio del primo tema come pure dalle troppe note e dai troppi accordi o frammenti ripetuti insistentemente. In qualche passaggio, poi, c’è la ricerca di una magniloquenza sinfonica in disaccordo con il carattere spedito e spigliato della composizione. Ma, tutto sommato, anche questo finale piace agli ascoltatori, che volentieri si lasciano sedurre dalla sua straordinaria vivacità e dalla sua giovanile esuberanza.

 

Scattante, precisa, energica, ma anche “gridata” può essere definita l’esecuzione di Wilson Hermanto alla testa dell’Orchestra della Svizzera italiana. Legni e ottoni hanno spesso prevaricato nel primo e nel quarto tempo, esagerando la marcatura ritmica, a scapito dei disegni degli archi, cui sarebbe spettato il primo piano. L’inconveniente ha riguardato anche il minuetto, dove il “brontolio” un po’ burbero e accigliato degli archi, che ne costituisce la caratteristica e la bellezza, è rimasto sopraffatto. D’altra parte si è apprezzata, per la levità e la finezza, l’esecuzione dell’”andante”.

 

Il concerto è iniziato con un Intermezzo per archi dalla Suite romantica op. 8 di Franz Schreker, che ha fatto ascoltare un buon contrappunto, ma costruito con melodie alquanto manierate e dolciastre. Poi è entrato in scena il saxofono con “Scaramouche” op. 165c di Milhaud, una composizione esuberante e colorita, che però nell’esuberanza e nel colore trova il pregio e il limite. Gli ha fatto seguito una “Fantasia” per saxofono e orchestra W490 di Villa-Lobos, di ascolto gradevole ma di modesta levatura artistica. Bravissimo è stato il solista Mario Marzi, che dalle partiture ha tratto tutto quanto si poteva.

 

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Una ouverture frizzante, un minuetto un poco lezioso, una gavotta dall’andamento bonario e una pastorale molto bucolica ma con interessanti sviluppi melodici, contrappuntistici e armonici costituiscono “Masques et bergamasques”, suite op. 112, di Fauré. La composizione è stata eseguita in apertura di serata il 28 febbraio. Poi Il Concerto per flauto dolce soprano, due corni e archi di Anton Heberle, vissuto tra il 1780 circa ed il 1816 circa, un lavoro diligentemente e scolasticamente confezionato, ma di scarsissima sostanza, ha portato in primo piano una variante del flauto dal suono limpido, candido e penetrante, che il solista Maurice Steger ha saputo mettere a profitto con grande abilità. Ha conquistato le simpatie del pubblico ed è stato molto applaudito. Dopo la pausa è venuta la “Petite Suite” op. 39 di Roussel. Qui il compositore ha fatto delle stramberie e delle idee (almeno apparentemente) buttate a caso il suo stile. Orchestra in maschera, atmosfera carnevalesca e molto bailamme. Nonostante la bravura incontestabile degli interpreti gli applausi sono stati tiepidi. Su un altro livello ci si è spostati con il Divertimento per orchestra d’archi op. BB118 di Bartok. Questa composizione appare con una certa frequenza nei programmi e si è già avuta l’occasione di parlarne. Tito Ceccherini dal podio e la sezione archi dell’Orchestra della Svizzera italiana ne hanno dato una lettura assai valida, mostrando un alto grado di efficienza, sia come complesso sia negli interventi solistici. Ampi consensi da parte del pubblico.

 

Carlo Rezzonico

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