“Romeo e Giulietta” di Spuck all’Opernhaus di Zurigo
La trama del balletto “Romeo e Giulietta” in scena all’Opernhaus di Zurigo, con la coreografia di Christian Spuck, segue abbastanza fedelmente la tragedia di Shakespeare e non si scosta molto da quella delle altre versioni coreografiche della vicenda. Tranne però all’inizio. Infatti quando il sipario si alza appare una sala prove con ballerine e ballerini irrigiditi in una grande varietà di pose. Formano tutti insieme un quadro assai suggestivo. A poco a poco costoro danno segni di vita, compiono alcuni passi, si esibiscono in diverse danze e alla fine entrano nella vicenda. Sul piano drammaturgico non vedo il senso della premessa in sala prove, però le danze eseguite in tale ambiente sono così belle che non mi sento di muovere rimproveri al coreografo. Il quale, non solo in questa specie di prologo, ma in tutto il balletto mostra una straordinaria fertilità dell’invenzione coreografica. Grazie ad essa può permettersi di rinunciare quasi completamente a episodi mimati. Contrariamente al solito danzano anche frate Lorenzo, il padre Capuleti e soprattutto la nutrice. A proposito di questa mi parve assurdo, quando lessi il programma di sala, che la parte fosse stata assegnata a una ballerina di valore come Viktorina Kapitonova; poi, vedendo lo spettacolo e costatando la quantità e qualità della danza affidatale, ebbi la spiegazione. Considerazioni analoghe valgono per i numeri di gruppo. Molti coreografi, quando presentano combattimenti o duelli e tentano di farlo in modo realistico, cadono nel ridicolo; nel caso di Spuck invece anche queste scene, pur mantenendo la loro drammaticità, non sconfinano mai dalla danza.
Yen Han, una ballerina da venti anni al servizio dell’Opernhaus, è stata una Giulietta accattivante: impeccabile nella tecnica, dolce e ariosa nei momenti lirici, appassionata in quelli di maggior trasporto (penso specialmente ai passi a due con Romeo, per i quali lo Spuck ha saputo creare alcuni passaggi coreografici di grande intensità), bravissima nel danzare con indifferenza e disgusto quando deve accoppiarsi al conte Paride, tormentata nel punto in cui decide di prendere il filtro datole da frate Lorenzo, commovente infine nella conclusione tragica. Un caldo elogio merita Olaf Kollmannsperger, un Romeo pieno di vigore e passione. Ammirevoli Denis Vieira. Arman Grigoryan e Daniel Mulligan rispettivamente come Tebaldo, Mercuzio e Benvolio.
La direzione musicale era nelle mani sicure di Michail Jurowski, il quale ha saputo ottenere prestazioni maiuscole dalla Philharmonia Zürich (rammento che questo è il nuovo nome dell’orchestra dell’Opernhaus), in ottima forma. Nell’introduzione ha dato immediatamente un saggio della sua intelligenza interpretativa. Gli accordi iniziali, sferzanti e violenti, hanno costituito una impressionante manifestazione di orrore. In seguito gli attacchi marcati e puntuali, le melodie esposte con la massima cura, specialmente nell’articolazione, i suoni affilati come lame di spade nei momenti di tensione e d’altro lato le ineffabili delicatezze dei motivi dedicati all’amore hanno portato a una esecuzione magistrale della partitura di Prokoviev.
La sera in cui ero presente, quella del 21 gennaio, un pubblico numerosissimo e in gran parte giovane ha subissato di applausi e ovazioni tutti gli interpreti, in modo particolare la Han, il Kollmannsperger e, fatto inusuale e lodevole, il direttore Jurowski. Si direbbe che gli zurighesi apprezzino in misura crescente la danza. Secondo i dati comunicati recentemente sulla stagione 2012/2013 l’occupazione dei posti ha superato il 90%, una percentuale invidiabilissima (l’opera si è attestata attorno all’80%, il che costituisce un risultato meno brillante ma pur sempre qualificabile come buono).
Concerti dell’Auditorio
Nella rassegna di strumenti speciali presentata ai Concerti dell’Auditorio, il 17 gennaio è stata la volta dell’armonica a bocca. L’ha suonata con ammirevole abilità Gianluca Lettera, mettendo in luce le particolarità dello strumento, capace di produrre colori inconsueti per i frequentatori dei normali concerti sinfonici. Purtroppo l’esiguità dei suoni emessi da questa armonica non consente l’equilibrio con l’orchestra. Sarebbe stato opportuno che il compositore (Villa-Lobos) avesse sovrapposto meno e alternato di più orchestra e solista, in modo che questo non si trovasse troppe volte in ombra. D’altra parte l’orchestra avrebbe dovuto suonare tutto “piano” o “pianissimo”.
Prima del Concerto per armonica a bocca e orchestra il direttore Pablo Gonzalez e la sezione archi dell’Orchestra della Svizzera italiana hanno deliziato gli ascoltatori con una squisita esecuzione del Concerto in re per orchestra d’archi di Stravinskij. La partitura è un pullulare di idee che vanno da fremiti ritmici ad abbandoni melodici, il tutto però in punta di piedi, con garbo e spesso anche con tocchi di ironia. È una musica, per così dire, con il sorriso sulle labbra. Dopo la pausa è stato offerto un altro brano di Stravinskij, “Dumbarton Oaks” concerto in mi bemolle per orchestra da camera, anch’esso, come quello ascoltato prima, scritto per una occasione festosa. Qui il compositore ha saputo trovare molti spunti piacevoli, ma la sua immaginazione è parsa meno fervida rispetto alla composizione precedente. A conclusione della serata il programma ha posto la sinfonia “Haffner” di Mozart. Il Gonzalez e l’orchestra ne hanno dato una esecuzione molto poderosa, forse troppo, nei tempi estremi e finemente filigranata nell’”andante”.
Molto pubblico, come di solito, e vivi applausi.
“L’elisir d’amore” a Como
Sul numero precedente del “Paese”, riferendo sul concerto dell’Auditorio svoltosi a Lugano il 10 gennaio, scrissi che il direttore Andrea Battistoni possiede un temperamento focoso e che i suoi gesti sono estremamente marcati, talvolta addirittura rabbiosi. Il giorno dopo vidi a Como “L’elisir d’amore”, sempre sotto la sua direzione. Quali risultati ha prodotto il carattere impetuoso del Battistoni su una vicenda finemente comica e dolcemente patetica e su una partitura che inanella da capo a fondo suadenti melodie? A tavolino si potrebbe prevedere una strage. Nei fatti gli esiti sono stati ottimi. Il Battistoni ha sottoposto l’ordito musicale a una analisi minuta, non ha trascurato nessun particolare, ha pesato ogni nota con il bilancino (e che brava, sia detto subito, l’Orchestra I pomeriggi musicali di Milano nel seguirlo). Inoltre ha scelto tempi stretti e una dinamica molto rilevata. Non ha esitato a lanciare l’orchestra in alcune bordate assai forti e in sonorità taglienti. Con ciò la partitura, diventata asciutta e stringata, è risultata come ringiovanita, presentando anche aspetti inconsueti, che sfuggono nelle normali esecuzioni, e la storia di Nemorino e Adina non ha perso per nulla il suo fascino. A riprova del fatto che un direttore, quando non lesina impegno e coerenza, giunge a esiti notevoli anche se segue una linea apparentemente assurda. In palcoscenico era presente una compagnia di canto equilibrata. Enea Scala (Nemorino) ha una buona voce di tenore lirico e sa usarla bene. Nelle emissioni di Lavinia Bini (Adina) c’è qualche asperità, però la cantante è intelligente e ha delineato lodevolmente il suo personaggio. Solidi e ben timbrati sono i mezzi di Julian Kim (Belcore). Valida è stata anche la prestazione di Francesco Paolo Vultaggio, il quale ha saputo dare una versione divertente ma decorosa del simpatico ciarlatano; ha cantato e non ha gridato o sbraitato, come purtroppo capita spesso. Sia menzionata anche la spigliata Dorala Cela (Giannetta). Come sempre ben calibrato il Coro AsLiCo, istruito da Dario Grandini.
Sul piano visivo l’epoca della vicenda è stata trasferita nell’Italia del secondo dopoguerra, con tanto di biciclette e automobile utilitaria per gli spostamenti di Dulcamara. Ma al giorno d’oggi chi entra in un teatro d’opera deve rassegnarsi a pagare un tributo alle ambizioni dei registi. Va detto peraltro che in questa edizione del capolavoro donizettiano il tributo è stato relativamente leggero poiché, eccettuato lo spostamento nel tempo, per il resto la regia (di Arnaud Bernard) merita approvazione. In particolare la guida dei personaggi non ha lasciato nulla a desiderare e si è mantenuta su un livello più che dignitoso, respingendo la tentazione di abusare con i lazzi. Il tutto è stato inquadrato da proiezioni su un fondale, quasi sempre in bianco e nero, scure, più consone a una cupa tragedia che alla gaia e colorita storia del filtro d’amore.
Il teatro era affollatissimo, con una presenza ticinese assai folta. Applausi molto convinti.
Carlo Rezzonico
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