Nuovo balletto su “Anna Karenina” a Zurigo
Spazio musicale
In “Anna Karenina” Tolstoj presenta tre coppie le cui vicende, nonostante qualche interferenza iniziale, hanno percorsi in larga misura indipendenti ed esiti diversi. La complessità del romanzo viene accresciuta da numerosi episodi secondari, da personaggi complementari studiati minutamente come se fossero protagonisti, da descrizioni del modo di vivere dell’aristocrazia russa e da lunghe dissertazioni su problemi politici ed economici, particolarmente nel campo dell’agricoltura. Lo scrittore indugia ad analizzare in modo approfondito quanto avviene nelle pieghe più riposte della sensibilità degli esseri umani; talvolta sembra compiacersi in tali esercizi di introspezione e si spinge troppo lontano. Detto questo è logico domandarsi in qual modo un’opera letteraria siffatta possa costituire la base per un balletto. La via più semplice consisterebbe nel limitare l’assunto a qualche sua parte, ad esempio la storia di Anna con Wronski, concentrandovi le risorse offerte dalla danza. Non così però ha fatto Christian Spuck, direttore del Ballett Zürich, che il 12 ottobre ha presentato in prima assoluta, all’Opernhaus, la sua versione coreografica di “Anna Karenina”. Il balletto conserva le tre coppie e molti momenti salienti del romanzo, naturalmente in una successione rapida e stringata. Nel primo atto, che va dai comportamenti infedeli di Stepan Oblonski al punto in cui la protagonista, dopo il parto, corre il rischio di perdere la vita, qualche calo di ispirazione si fa sentire. Poco convincente è la scena nella quale Anna e Wronski, dopo che la donna ha rifiutato di rincasare con il marito, si abbandonano al loro ardentissimo amore gettandosi a terra in un abbraccio senza ritegno (meglio sarebbe stato, a mio parere, mettere un passo a due: nel balletto si dovrebbe far sempre solo danza, anche negli episodi più appassionati). Priva della necessaria carica drammatica è la scena, fondamentale, della corsa dei cavalli. Invece meritano ammirazione le danze di gruppo nei vari salotti dell’aristocrazia, grazie anche ai meravigliosi costumi, e il duetto tra Wronski e Anna in pericolo di vita, che diventa poi un terzetto quando sopraggiunge Alexej Karenin e si fa strada l’idea del perdono. Se la prima parte dello spettacolo non sempre ha dato piena soddisfazione, il discorso cambia per la seconda. Questa inizia con tre pregevoli passi a due, uno per ogni coppia: accademico, arioso, dalle linee purissime, ma sempre più spesso interrotto da momentanei smarrimenti dei due innamorati quello tra Anna e Wronski, ansiosi di tornare in Russia per rivedere il figlio lei e per riprendere i contatti sociali lui; formale, distaccato, freddo quello tra Dolly e Stiwa, i quali hanno aggiustato in qualche modo la loro relazione, ma senza far rinascere l’amore; infine vivace e brioso quello tra Kitty e Lewin, sposi felici (qui veramente non avrebbe guastato qualcosa in più, magari un pizzico di virtuosismo finale, per creare uno stacco più marcato con i gravi accadimenti successivi e, non da ultimo, per approfittare della disponibilità di una ballerina valida come Katja Wünsche). Poi comincia la corsa inesorabile verso la tragedia e la coreografia non si concede più pause, facendo trattenere il fiato agli spettatori; una punta di eccellenza viene raggiunta con il duetto-scontro tra Anna e il marito dopo la furtiva e toccante visita della donna al figlio. Fatte le somme si può dire che la caratterizzazione di Anna come persona estremamente appassionata, vittima della sua foga amorosa e alla fine tragica, è riuscita assai bene allo Spuck; esprimo una opinione positiva anche per gli altri personaggi, facendo solo una piccola riserva su Kitty, risultata inferiore al suo potenziale.
Nei panni della protagonista Viktorina Kapitonova ha messo in luce doti tecniche, ma soprattutto interpretative, eccezionali. La sua Anna ha trascinato e commosso. Molto bene ha danzato Katja Wünsche come Kitty. Bravi Filipe Portugal (Alexej Karenin), Denis Vieira (Wronski), Tars Vandebeek (Lewin), Arman Grigoryan (Stiwa), Galina Mihaylova (Dolly) e tutti gli altri. L’intera vicenda è stata ambientata in una specie di salone, talvolta ignorando i luoghi dell’azione, altre volte accennandovi con proiezioni su una tenda in funzione di fondale. Un numero insolitamente alto di collaboratori ha partecipato all’allestimento: Jörg Zielinski e lo stesso Christian Spuck (scene), Emma Ryott (costumi), Marti Gebhardt (luci), Tieni Burkhalter (“videodesign”), Martin Donner (“Sound-Collagen”) nonché Michael Küster e Claus Spahn (drammaturgia). Sul versante musicale, che ha utilizzato composizioni di Rachmaninov, Witold Lutoslawski, Sulkhan Tsintsadze e Josef Bardanashvili, si è distinta l’ottima pianista Josiane Marfurt, ha cantato encomiabilmente Anna Stéphany e ha diretto con mano sicura Paul Connelly, alla testa dell’impeccabile Philharmonia Zürich. Successo pieno.
Splendida “Adriana Lecouvreur” a Como
Solitamente l’”Adriana Lecouvreur” di Cilea viene qualificata come un quasi-capolavoro. Ma dopo aver visto l’opera il 16 ottobre al Teatro Sociale di Como sono tentato di togliere il “quasi”. Non che tutto sia stato assolutamente perfetto: alla soprano avrebbe giovato una voce un tantino più voluminosa, la mezzosoprano ha commesso qualche eccesso nel manifestare l’agitazione del suo personaggio, in orchestra alcuni interventi dei legni sono stati prevaricanti e non ha molto servito il trasferimento della vicenda dal Settecento all’epoca di composizione. Eppure questi difetti o difettini sono passati in seconda linea di fronte ai grandi meriti dell’esecuzione in tutti i punti essenziali. Quali sono questi punti essenziali? In primo luogo menziono l’estrema raffinatezza della partitura, dove ogni nota, ogni accordo, ogni contrappunto e ogni timbro sono soppesati in modo accuratissimo. In secondo luogo penso alla capacità del compositore di sviluppare melodie in un perfetto equilibrio formale ma anche in un crescendo di intensità che le porta a raggiungere vertici espressivi: sia citata come esempio particolarmente pregevole quella che domina il duetto finale tra Adriana e Maurizio. In terzo luogo la musica è pervasa da una affabilità e una leggerezza che, pur nella sua modernità, si ricollegano alla grande fioritura dell’opera napoletana settecentesca. Infine non dimentichiamo un piglio di preziosa e aristocratica eleganza. La piena comprensione di questi valori e la capacità di produrre le sottigliezze senza sconfinare nella ricercatezza, di plasmare le melodie in tutto il loro fascino senza cadere nella leziosità nonché di ritrovare quello spirito di garbo e tenerezza appartenuti ad una antica tradizione e rimessi in onore da Cilea ha costituito il grande pregio di questa edizione comasca dell’opera. Del direttore Carlo Goldstein il programma di sala dice: “È tra i giovani direttori d’orchestra emergenti del panorama internazionale.” Approvo, e mi aspetto molto da lui in futuro. Daria Masiero ha dato della protagonista una interpretazione lontana dagli impeti di altre cantanti (il pensiero corre a Magda Olivero, scomparsa non molto tempo fa a centoquattro anni, che fu una grande Adriana, anche a Como, nel 1966) ma intessuta di finissima introspezione psicologica. Affascinanti momenti di poesia sono state, cantate da lei, le due arie. Accenti toccanti ha trovato nelle allucinazioni del finale. Angelo Villari (Maurizio), superato un certo impaccio nel fraseggio all’inizio, si è poi distinto, a voce calda, per potenza e squillo. Ammirevole è stata Sanja Anastasia (Principessa). Possiede mezzi penetranti, ricchi di timbro e capaci di produrre in zona acuta grandi bagliori vocali. Si aggiunga un temperamento assai forte (da tenere però un poco più sotto controllo). Ogni bene sia detto di Francesco Paolo Vultaggio (Michonnet), sia per la qualità della voce sia per la commovente partecipazione al dramma di Adriana. Hanno svolto un ottimo lavoro tutti i comprimari (una menzione speciale sia fatta per Matteo Macchioni, impeccabile Abate), l’Orchestra I pomeriggi musicali di Milano e il Coro AsLiCo, istruito da Antonio Greco.
Sul piano visivo non mi par vero, questa volta, di poter elogiare senza riserve una regia attenta ma non invadente come pure le scene ed i costumi. Di tutto è stato autore Ivan Stefanutti. Di buon effetto le luci di Paolo Coduri de’ Cartosio
Pubblico numeroso, successo vivo.
Carlo Rezzonico
« Bundesrat zementiert verfehlte Agrarpolitik È nata “La Destra”: alcune domande ai presidenti dei tre partiti »