“Francesca da Rimini” e “Il corsaro” alla Scala
Spazio musicale
“Francesca da Rimini” di Zandonai possiede caratteristiche affatto speciali e pregi notevoli ma viene rappresentata molto raramente, correndo il rischio di subire la stessa sorte degli altri lavori del compositore. Pertanto il suo recente ritorno alla Scala ha costituito uno dei momenti più importanti della stagione 2017/2018.
Un primo aspetto da sottolineare, parlando di quest’opera, è il senso della storia che la pervade costantemente. Non mi riferisco al fatto che la vicenda si svolga sullo sfondo di uno dei tanti conflitti che afflissero l’Italia nel tredicesimo secolo. Non mi riferisco neppure agli arcaismi del libretto o all’uso di strumenti antichi accanto a quelli moderni: il tutto non fa che suscitare l’idea di un falso Medioevo irrilevante ai fini artistici. Notevole è invece che la lontananza nel tempo venga evocata da certe atmosfere scure e austere ottenute mediante lo strumentale come pure dall’adozione, per il canto, di un arioso che ripete frequentemente le medesime inflessioni. Tali particolarità contribuiscono anche a determinare un altro aspetto dell’opera, ossia la densa tristezza che grava continuamente su di essa, il suo respiro affannoso e i presagi della tragedia.
Senza dubbio l’arioso e la ripetizione di alcune formule generano monotonia. Per fortuna appaiono anche alcune aperture melodiche assai belle e trovo peccato che Zandonai non abbia concesso più spazio alle sue capacità in questo ambito. Il tema dedicato al sentimento dell’amore, per esempio, ha una originalità di svolgimento e una densità espressiva che ne fanno un vero capolavoro. Rude e angoloso, ma utilissimo alla caratterizzazione del personaggio e ai richiami nei momenti in cui questo appare e si impone con la sua tracotanza, è l’inciso associato a Giovanni lo Sciancato.
Un discorso su “Francesca da Rimini” sarebbe lacunoso se non menzionasse l’alta qualità del lavoro strumentale, che è fondamentale, sia per l’efficacia nel definire l’inquadratura storica degli avvenimenti, sia per l’accuratezza, la finezza e la pertinenza nel seguire a passo a passo ogni circostanza ambientale e ogni moto psicologico dei personaggi.
La Scala ha rappresentato l’opera, per quanto concerne la musica, con molto impegno, quasi volesse farsi perdonare l’assenza dai suoi cartelloni dal 1959 a oggi. Fabio Luisi, dal podio, ha diretto in modo esemplare e l’orchestra è stata inappuntabile. Siano menzionati in modo speciale due punti. Il primo è l’attenzione prestata alle allusioni fosche e premonitrici, che sono numerose e cominciano presto, come il breve accenno da parte di una delle donne all’imminente matrimonio di Francesca nella prima scena del primo atto. Il secondo è la creazione di atmosfere cariche di significato, che in ampie parti dell’opera hanno avvolto con grande intensità personaggi e vicenda. Maria José Siri è stata una Francesca bene in voce e appassionata. Soddisfacente il tenore Marcelo Puente (Paolo). Ottimi Alisa Kolosova (Samaritana), Costantino Finucci (Ostasio), Gabriele Viviani (Giovanni), Luciano Ganci (Malatestino) e tutti i comprimari.
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La vicenda del balletto “Il corsaro” è una fila di rapimenti e controrapimenti: il mercante di schiavi Lankendem offre nel bazar diverse figliole da lui rapite, tra le quali Gulnare e Medora, che vengono acquistate da un pascià; il pirata Conrad, innamorato di Medora, unitamente ai suoi uomini si impadronisce di lei, delle altre ragazze e di Lankendem; però questi, con la collaborazione di un pirata infedele, riesce a
trafugare Medora riportandola al pascià; giungono di nuovo i pirati, Conrad riconquista Medora e parte con lei. Parrebbe una storia ridicola. Eppure non mancano personaggi ed episodi che si prestano a un lavoro interpretativo di un certo impegno da parte di ballerine e ballerini. Grande è la varietà dei caratteri, specialmente maschili: oltre al fervente innamorato, questa volta pirata, e alla donna che ricambia i suoi affetti ci sono il servitore fedele e quello ribelle fino al tradimento, il mercante di schiavi con tutta la sua spregiudicatezza e tutte le sue ambiguità, infine il pascià ricco e avido di sesso. La descrizione della vita nel bazar e soprattutto la presentazione delle schiave in vendita offrono interessanti possibilità di caratterizzazione. Sia poi menzionato l’episodio in cui Medora si dispera di fronte al corpo apparentemente esanime del suo corsaro (un momento sicuramente attraente per una ballerina-interprete). Queste occasioni sono state utilizzate, non totalmente ma in larga misura, dalla coreografa Anna-Marie Holmes, che si è rifatta a Petipa e Sergeyev, nel nuovo allestimento della Scala presentato tra aprile e maggio. Una riserva sia fatta per il “giardino animato”, un tantino lezioso e coreograficamente poco interessante.
Nicoletta Manni (Medora) ha messo in luce qualità notevoli: tecnica limpida, ottima elevazione nei salti, leggerezza, virtuosismo. La sua danza è fluida e ariosa. Non ha il titolo di “étoile” ma, a giudicare dalle prestazioni nel “Corsaro”, potrebbe essergli vicina. Un lavoro molto lodevole ha svolto Martina Arduino (Gulnare). Si è distinta subito all’inizio nei numerosi sollevamenti. È vero che per le figurazioni di questo tipo tocca al ballerino portar bene la ballerina, ma l’esito dipende poi dai movimenti e dalle pose che questa assume: l’Arduino ha saputo conferir loro senso dello spazio e ampio respiro. Tutti corretti gli interpreti maschili: Timofej Andrijashenko (Conrad), Marco Agostino (Lankendem), Antonino Sutera (Birbanto) e Mattia Semperboni (Alì). L’ultimo menzionato ha costituito per me la rivelazione dello spettacolo: sicurezza, vigore e slancio hanno destato molta ammirazione. Nella gerarchia della compagnia scaligera figura come semplice membro del corpo di ballo ma se mantiene quanto ha promesso nel “Corsaro” non mi meraviglierei se salisse rapidamente di grado. Appropriati i costumi e le scene di Luisa Spinatelli.
La partitura musicale è un vero e proprio vestito di Arlecchino che allinea pezzi di cinque compositori: Adam, Pugni, Delibes, Drigo e Prince Oldenbourg. Patrick Fournillier ha diretto con intelligenza e gusto.
“Faust – Das Ballett” a Zurigo
Non sono tra coloro che giudicano il soggetto del “Faust” di Goethe inadatto a un balletto. Tutto dipende dal modo in cui il coreografo e il compositore (qualora venga creata una partitura musicale nuova) affrontano il tema. Edward Clug e Milko Lazar, che hanno tentato l’impresa all’Opernhaus di Zurigo, si sono incamminati purtroppo su una via discutibile. Qualunque sia la visione degli artefici di un balletto, un principio non va mai dimenticato: occorre raccontare, esprimere, sorprendere o indurre a riflessione sempre con il solo linguaggio della danza, sia pure rinnovata e arricchita con elementi moderni. Invece il Clug per lunghi tratti dello spettacolo ha prodotto soprattutto gesticolazioni. In pochi sprazzi del balletto si è fatto posto a episodi qualificabili come danzati, per esempio nel punto in cui gli studenti festeggiano Faust o nell’assolo di Margherita dopo l’uccisione di Valentino (ma qui più che la coreografia ha convinto l’eccellente prestazione di Michelle Willems). Faccio un’altra riserva per il carattere eccessivamente tenebroso e monotono della prima parte, dove il fondale nero (solo di quando in quando si effettuava una piccola apertura che portava un pizzico di varietà) e la musica di Milko Lazar (quasi tutta a figurazioni brevissime o note singole ripetute ossessivamente, in assenza totale di melodia) hanno ulteriormente appesantito lo spettacolo. Parecchie trovate comiche, abbastanza piacevoli, ma sulle quali si è insistito troppo, hanno occupato l’inizio della seconda parte; poi molte concessioni al grottesco. Una vera e propria caratterizzazione di Mefistofele come spirito “spirito che nega” non l’ho riscontrata e la salvezza finale di Margherita ha avuto solo accenni.
Nulla da eccepire per quanto concerne l’esecuzione offerta dalla compagnia zurighese: tutti bravi i solisti Jan Casier (Faust), William Moore (Mefistofele), Viktorina Kapitonova (Marthe Schwerdtlein), Meiri Maeda (angelo), Alexander Jones (Valentino), Christopher Parker (Wagner) e Cohen Altchison-Dugas (visione di Gesù). Della squisita Michelle Willems si è già detto.
La rappresentazione alla quale ho assistito (quella pomeridiana del 6 maggio) ha riscosso molti applausi da parte di un pubblico, come sempre, numerosissimo.
Carlo Rezzonico
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