Avete sposato quella/o giusta/o?
Una considerazione storico-culturale sul matrimonio
Chi, perché, quando e come ci sposiamo? Domanda impegnativa. Come si arriva oggigiorno al matrimonio, è visibile quotidianamente. Ma come era una volta? E, soprattutto: i matrimoni di oggi sono meglio di quelli di ieri? C’è una risposta valida per tutti, se si sia scelta la persona giusta al momento giusto? È in qualche modo un segno del destino, oppure un puro caso? E che cosa si fa, dopo un matrimonio così «casuale»?
Cominciamo con l’oggi…
Beh, oggi va spesso così: due persone si conoscono sul posto di lavoro, al club sportivo, tramite amici, uscendo la sera o via Internet. Si trovano simpatici, si sentono vicini, arriva il primo appuntamento, presto si trovano a letto assieme e trovano che sia bellissimo. Decidono in seguito di convivere, lo fanno per un po’ e infine si sposano (forse), a volte non per molto.
Com’era una volta?
Nel remoto passato, i giovani in età da matrimonio vivevano perlopiù in famiglia. Il matrimonio era un affare di famiglia, sul quale la decisione spettava ai genitori. Il ceto sociale e gli interessi materiali rivestivano un ruolo determinante. Il matrimonio veniva valutato sulla base del ceto, dell’acquisizione di potere o di interessi e del reddito. Ciò valeva per le corti principesche giù giù fino alle aziende agricole. I due futuri e predeterminati sposi avevano poco da dire. Dovevano sposare quella o quello che le famiglie avevano prestabilito. (Nota bene: oggigiorno è ancora così in gran parte delle famiglie islamiche). Conseguenze: nelle corti aristocratiche, i Signori avevano le loro amanti ufficiali, le donne si accompagnavano più discretamente al loro «maestro di musica». Com’era nel mondo rurale? Nessuna idea. Forse è un bene che allora, in entrambi i casi, non ci fossero ancora i test di paternità. E un certo Islam prevede ancora oggi che, quando escono, le giovani donne debbano – sicuramente non a caso – indossare un burqa.
Com’era in Ticino cento o duecento anni fa?
Non lo so in generale. Nel Ticino rurale gli interessi agro-politici delle famiglie contadine rivestivano sicuramente un ruolo importante. Ma poi venne l’epoca della grande povertà, della fame, dell’emigrazione. I giovani dovevano emigrare, le giovani donne rimanevano a casa. Ciò portò a dei drammi, presentati in modo eccellente anche letterariamente (vedi in particolare lo stupendo libro di Plinio Martini «Il fondo del sacco»). Ma poteva andare anche meno tragicamente di quanto descrittovi. Al riguardo, la cronaca tratta dalla storia della mia famiglia.
Mio nonno si sposò nel 1920 per corrispondenza…
Il mio nonno ticinese (nato nel 1886 nella bassa Valle Maggia) imparò il mestiere e lavorò quale scalpellino ai Ronchini (Aurigeno). A quei tempi di lavoro ce n’era poco e così, nel 1910, accettò un lavoro tuttofare nell’angolo più alto della Valle Maggia, al Piano di Peccia. Poiché a quel tempo non aveva la possibilità di rientrare a casa la sera, pernottava in un ostello del posto. L’albergatore locale aveva diverse figlie che quindi fecero conoscenza anche loro con mio nonno. Erano tutte carine, ma una, in particolare, piaceva a mio nonno. Terminati i lavori, lasciò Peccia, ma le sue possibilità di impiego rimanevano scarse. Così, nel 1911, decise di emigrare in California per lavorare in un ranch. Gli andò bene, guadagnò e poté perfino permettersi di comperare un ranch. Quando la sua condizione economica, nel 1918, gli permetteva ormai di sposarsi, si ricordò della ragazza lasciata al Piano di Peccia. Così, scrisse dall’America una lettera al di lei padre, chiedendone la mano. Tre mesi più tardi (i servizi postali dell’epoca!) ricevette la risposta del padre: «Questa figlia si è nel frattempo sposata, ma ne ho altre tre ancora nubili» (delle quali allegava la foto). Mio nonno ricordava bene una delle tre, e rispose al padre che l’avrebbe sposata volentieri al posto dell’altra. Questa figlia era d’accordo. In una susseguente lettera, mio nonno le chiese di partire per l’America, le avrebbe mandato anticipatamente i soldi necessari per i viaggio. Ma la ragazza, tramite una lettera del padre, gli fece sapere: «Ti sposo, sì, ma solo qui – vivo e rimango qui. In America? Mai!» (non so se prendesse esempio dalla nota canzone „Mamma mia dammi cento lire, che in America voglio andar»). Mio nonno ne trasse le conseguenze: invece di – com’era usuale a quel tempo in California – sposare una ragazza emigrata, decise di tornare a casa per il matrimonio. Vendette la sua parte del ranch e, ritornato in patria, sposò la «sua» ragazza ad Aurigeno nel 1920.
Così funzionavano le cose a quel tempo in materia di matrimonio. I miei nonni ebbero tre figli e rimasero felicemente sposati fino alla fine dei loro giorni (il nonno nel 1973, la nonna nel 1980).
…e io (nel 1977) anche…!
Come siamo messi oggi con il matrimonio? Come descritto sopra? Forse, ma non sempre. Io stesso, nel 1977, ho scelto una via che sembrerebbe ancora più avventurosa di quella scelta dal nonno nel 1920.
Nel 1977 ho sposato una ragazza straniera, praticamente senza mai averla vista prima (ciò non ha impedito che, nel frattempo, siamo sposati felicemente da 43 anni). Andò così: da scambi epistolari con diversi conoscenti nelle Filippine, un giorno del 1976 mi arrivò una lettera di una dottoressa del posto. Corrispondemmo per lettera (Internet non esisteva ancora a quel tempo), la corrispondenza fra noi si fece più personale e imparammo a conoscerci molto bene. A un certo momento, sempre per lettera, decidemmo di sposarci per poi vivere in Svizzera. Ma c’era un problema. Io volevo che la mia futura moglie venisse dapprima in Svizzera, in modo da conoscere il nostro modo di vivere per poi decidere in seguito. Lei rifiutò. Con la motivazione che (occorre considerare i criteri culturali locali di quel tempo) non poteva partire all’estero senza che, in caso di un ritorno a casa, fosse tacciata di «scartata», ossia «non sposabile». Così andavano le cose là, a quel tempo.
Così, decidemmo di sposarci nelle Filippine. Concluse tutte le formalità amministrative inerenti al matrimonio in Svizzera, andai laggiù. Mia moglie aveva nel frattempo organizzato tutti i preparativi per il matrimonio. Per la prima volta personalmente ci incontrammo circa 10 giorni prima del matrimonio, all’aeroporto di Manila. Fu come se ci conoscessimo da una vita. Ci sposò poi l’arcivescovo di Negros Oriental a Dumaguete City. Ai festeggiamenti erano presenti 351 persone. Da parte di mia moglie, 350 Filippini e Filippine, da parte mia uno solo: io. Perché nessuno qui in Svizzera (i miei genitori per primi) riteneva opportuno questo matrimonio. Può succedere!
Ma per tornare alla domanda iniziale
Ma, appunto, tornando alla domanda iniziale: Chi, perché, quando e come ci sposiamo? Quale «modello di matrimonio» è meglio? Quello di una volta imposto per forza o quello odierno molto liberale, o forse gli esempi apparentemente un po’ strani della nostra storia di famiglia? Nessuno lo può dire esattamente. Quando vedo l’odierno tasso di divorzi, dubito un po’ del «modello» moderno. Io ho solo una risposta: dipende molto da che cosa si fa di una convivenza. Quando tutto va bene, a breve termine è facile ma, nei momenti brutti la convivenza è messa alla prova. Innamorarsi è facile. Anche il sesso. Anche avere dei figli, se lo si desidera. Ma per una lunga e duratura relazione occorre amore, molto amore. Ciò anche nel senso del reciproco rispetto, comprensione e fiducia. Particolarmente in tempi di coronavirus.
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