Una “Aida” storica alla Scala in omaggio a Zeffirelli
Spazio musicale
Sull’”Aida” si è scritto così tanto che risulta difficile dire cose nuove. Piace però sottolineare ancora una volta la splendida unità dell’opera nonostante la presenza di aspetti grandiosi e spettacolari da un lato e la finissima introspezione psicologica dei due personaggi femminili dall’altro lato. Questa unità sfuggì ad alcuni recensori della “prima milanese”, che fece seguito a distanza di un mese e mezzo alla “prima assoluta” del Cairo, il 24 dicembre 1871. Perfino Filippo Filippi, uno dei critici più seguiti di allora, parlò sulla “Perseveranza” di “singolare dualismo, o meglio dire antagonismo”, citando l’adesione alle idee estetiche prevalenti fuori Italia a quell’epoca ma anche la conservazione del proprio passato e denunciando i passaggi con “una strana singolare precipitosa transizione” dall’uno all’altro stile. Verdi si arrabbiò e si sfogò così con l’amico Arrivabene: “Soltanto in questo momento è venuto di moda di gridare di non volere le cabalette. È un errore uguale a quello di una volta che non si voleva altro che cabalette. Si grida tanto contro il convenzionalismo e se ne abbandona uno per abbracciarne un altro! Oh! i grandi pecoroni!!” Come spesso accadde, il Bussetano disse con parole succinte una grande verità. La rinuncia a un convenzionalismo per adottarne un altro costituisce un fatto storico ricorrente e non solo nella musica e nelle altre arti ma anche in politica, economia, società, insomma in ogni ramo delle attività umane.
In maggio la Scala ha messo in scena “Aida” riprendendo la regia di Franco Zeffirelli risalente a oltre mezzo secolo fa con le scene e i costumi di Lila De Nobili. Lo spettacolo è stato inteso come un omaggio allo Zeffirelli in occasione dei suoi novantacinque anni. Quel memorabile allestimento presenta il melodramma verdiano in una veste estremamente fastosa per le scene monumentali, i costumi sontuosissimi e l’impiego in palcoscenico di masse enormi. Certamente il pubblico si trova di fronte a una “Aida” affascinante, alla quale però rimprovererei una specie di “culto dell’eccesso”, qualche affastellamento di comparse nel “trionfo”, qualche fastidiosa complessità dei loro movimenti e un colore generalmente ruggine e fosco non pienamente coerente con i valori della partitura.
Sul piano musicale l’opera era nelle mani di Daniel Oren, autore di una direzione non sempre ben calibrata e curata in ogni particolare. Una Aida ammirevole, per delicatezza ma anche per forza d’animo e determinazione, è stata Krassimira Stoyanova. I suoi mezzi non sono molto voluminosi ma hanno un carattere penetrante e si fanno sentire. Posseggono un bel vibrato, producono mezzevoci deliziose e accedono agli acuti con naturalezza e dolcezza, senza mai suscitare una impressione di sforzo o tensione dell’organo vocale. Non altrettanto positiva, nonostante un notevole impegno interpretativo, è stata la prova di Violeta Urmana nei panni di Amneris, che ha alternato passaggi scarsamente percettibili, specialmente nei registri basso e medio, a grandi e un poco grezze esplosioni vocali sugli acuti. Fabio Sartori, impegnato come Radames, ha saputo produrre emissioni robuste e di buon timbro; è un cantante non particolarmente raffinato ma adatto alla parte del guerriero salvator della patria. Ottime le prestazioni del baritono George Gagnidze: ha scolpito con forza selvaggia e grande incisività la figura dello spregiudicato e crudele padre di Aida. Elogiati tutti i comprimari, resta da dire che il coro, istruito da Bruno Casoni, si è disimpegnato bene nello svolgimento delle sue importanti funzioni.
Non vorrei dimenticare le belle a appropriate danze di Vladimir Vasiliev, riprese da Lara Montanaro, e soprattutto la squisita interpretazione di Marta Romagna come Akmet, una ballerina da tempo attiva nella compagnia di balletto della Scala e che possiede tecnica, esperienza e classe.
Grandi interpreti al LAC
Accostare Stravinskij e Mozart in una serata sembra un atto di sfida. Quando poi la composizione di Mozart è il concerto per pianoforte e orchestra KV 595, un lavoro tutto equilibrio, trasparenza e semplicità, la sfida sembra ancora più audace. Questo è avvenuto il 18 maggio al LAC per la stagione Lugano Musica. Dopo il breve Scherzo alla russa di Stravinskij, un brano gioioso e spensierato, gli ascoltatori hanno dovuto compiere la prima radicale inversione di atteggiamento per godere, dalle mani di Radu Lupu, il concerto mozartiano. È stata una esecuzione tutta raccolta nell’intimità, quasi un pacato colloquio con se stesso, condotto con coerenza e profondità di sentimento. Krzysztof Urbanski, polacco, direttore trentaseienne con alle spalle una carriera già importante, e la Royal Philharmonic Orchestra hanno accompagnato il solista seguendolo scrupolosamente sulla medesima linea interpretativa. Dopo la pausa nuovo cambiamento per ascoltare l’”Uccello di fuoco”. Questo lavoro ha costituito naturalmente l’occasione per il direttore e per il complesso ospite di mettere in luce le loro capacità: ne è risultata una interpretazione accuratissima, di alto valore, che ha fatto rifulgere ogni particolare della partitura in tutta la sua bellezza.
Il pubblico, che gremiva l’auditorio, ha manifestato con vivi applausi la sua soddisfazione. In fondo, quando ci si trova in presenza di capolavori interpretati come abbiamo sentito al LAC, si passa senza problemi dall’uno all’altro, ci si immette subito nelle rispettive caratteristiche e quelle che sembravano incoerenze del programma vengono presto dimenticate.
Abbagnato a Lugano
Uno spettacolo di alta qualità ha portato al LAC il 20 maggio Eleonora Abbagnato, “étoile” all’Opéra di Parigi e direttrice della compagnia di balletto al Teatro dell’Opera di Roma.
In “La rose malade”, su musica di Mahler, Roland Petit ha sviluppato per la ballerina una danza di netto stampo accademico, attenta soprattutto ai valori formali, che solo alla fine, quando la malattia prende il sopravvento, acquista per pochi attimi un andamento drammatico. Si sono esibiti lodevolmente l’Abbagnato stessa e Giacomo Castellana. Poi è venuto “Closer”, di Benjamin Millepied, su musica di Philippe Glass, che ha presentato maggiore originalità, vigore e intensità espressiva, ma in cui ancora una volta la ballerina era in primo piano mentre il suo compagno svolgeva quasi esclusivamente la funzione di portatore; molto bravi Laura Hecquet e Audric Bezard. Con il terzo numero la danza maschile si è presa una rivincita. Sulle note di Jacques Brel, Ben Van Cauwenbergh ha creato un piacevole assolo comico con largo impiego di virtuosismo. François Alu è stato autore di una prestazione splendida, sia per lo spiccato senso dell’umorismo, sia per la solidità tecnica; stupendi i molti “tours en l’air” vertiginosi e mozzafiato. A conclusione della prima parte “Amoveo”, ancora di Millepied e Glass, ha permesso a Léonore Baulac di offrire una danza squisitamente flessuosa e morbida come pure di dare espressione a una languida sensualità; meno impegnato, ma ammirevole pure lui, il compagno Hugo Marchand.
Dopo la pausa la serata ha affrontato un tema impegnativo, quello dell’Annunciazione, con la coreografia di Angelin Preljocaj. La danza è fortemente stilizzata, geometrica, alquanto lontana dal racconto nel Vangelo di Luca, tuttavia interessante in sé e, a tratti, con momenti di alta spiritualità. Impeccabili Federica Maine come Arcangelo e Giorgia Calenda come Maria. Sul versante acustico, a parte qualche breve citazione vivaldiana, si sono sentiti rumori e suoni alla rinfusa, difficilmente qualificabili come musica. In “Le Parc”, sempre di Preljocaj, quattro uomini, indicati come giardinieri, muovono il corpo esanime di una donna: l’effetto, anche a causa dei suoni lunghi, gravi e lugubri accompagnanti la danza, è stato sconvolgente e la Abbagnato ha rivelato grandi doti di interprete. In seguito, su un crepitare di strani rumori, i giardinieri hanno danzato un gradevole passo a quattro e per finire la Abbagnato, questa volta sulle tranquille e ristoratrici note di Mozart, si è fatta nuovamente apprezzare. Léonore Baulac e François Alu sono tornati per un passo a due tolto da “In the Middle, Somewhat Elevated”, uno dei balletti più famosi di Forsythe, poi Laura Hecquet e Hugo Marchand si sono esibiti in “L’anatomie de la Sensation” di Wayne McGregor”, un brano vigoroso e rude, nello stile tipico di questo coreografo. Infine un delizioso pezzo di Roland Petit, intitolato “Cheek to Cheek”, danzato con fine umorismo dalla Abbagnato e da Marco Marangio, ha immesso nella sfilata finale.
LAC al completo o quasi, applausi vivissimi.
Carlo Rezzonico
« Governo M5S-Lega, gli analisti finanziari: a ottobre in Italia sarà la catastrofe Il popolo dà fiducia a ciò che è collaudato »