Tempo di programmi per i teatri d’opera
Spazio musicale
Ci troviamo nel periodo di tempo in cui i teatri d’opera pubblicano i programmi per la stagione 2013/2014. Spesso i cartelloni suscitano una impressione favorevole per la loro ricchezza e per la qualità degli interpreti. Ma la contentezza e l’attesa di grandi soddisfazioni vengono attenuate da alcuni dubbi. Si faranno allestimenti adeguati, che pur non rinunciando a idee nuove e pur tenendo in considerazione il gusto del pubblico di oggi rispettano luogo ed epoca dell’azione, senza stravolgere il lavoro del librettista? Quando andremo a vedere, per esempio, una “Traviata” potremo godere pienamente la musica di Verdi, che è un grande capolavoro, oppure saremo disturbati dall’esibizione di un regista desideroso solo di mettere in evidenza se stesso e per il quale la partitura serve esclusivamente a costituire uno sfondo sonoro irrilevante e subordinato alle sue ambizioni? Per quanto concerne i melodrammi in prima assoluta, i compositori si sforzeranno di venire incontro, almeno in una certa misura, alle aspettative del pubblico? Dovremo assistere al solito triste spettacolo degli spettatori annoiati che abbandonano il teatro durante l’intervallo, lasciando poi, per la seconda parte, penosi vuoti in sala? Le opere nuove continueranno a vivere dopo le prime rappresentazioni nel teatro che le ha messe in cartellone oppure, come molto spesso succede, scompariranno subito e saranno dimenticate?
In merito alle regie proporrei ai teatri quanto segue: se proprio si pensa di dover insistere con gli stravolgimenti dei melodrammi, adducendo il motivo che bisogna svecchiarli, renderli attraenti per la gente del nostro tempo, far loro rispecchiare i problemi sociali del presente e così via (ma perchè non si fa tutto questo con opere nuove?), allora si cerchi almeno di non perdere completamente quella parte considerevole del pubblico che è affezionata al teatro musicale ma non accetta le cosiddette “dissacrazioni” e preferisce rimanere a casa allestendo ogni anno tre o quattro melodrammi nel rispetto del luogo e dell’epoca originali e magari creando un abbonamento speciale per tali spettacoli.
Alcuni critici chiedono ai teatri o agli organizzatori di stagioni sinfoniche o da camera di caratterizzare i cartelloni con temi particolari, in modo da approfondire singoli aspetti della produzione musicale, presentare lavori eseguiti raramente, favorire l’attività dei musicisti contemporanei o dare contributi importanti alla musicologia. Senza dubbio il suggerimento ha buone ragioni dalla sua parte, ma il prezzo da pagare sono sale semivuote. Alla delusione si aggiunge poi il problema finanziario, che non va trascurato. In una città avente una grande dimensione o in una importante rassegna di livello internazionale si possono attuare serie di spettacoli o concerti rispondenti ai criteri suddetti, tuttavia come norma generale i cartelloni non devono ignorare le esigenze di un pubblico che si estenda oltre la cerchia degli intellettuali e degli specialisti.
So di andare controcorrente e di espormi a critiche. Bene, per compromettermi del tutto aggiungo che a mio parere un criterio da non escludere nell’allestimento di cartelloni per i teatri d’opera è quello della qualità dei cantanti disponibili. In un melodramma i cantanti rivestono una importanza fondamentale. Non solo, ma i melodrammi esigono voci eccezionali per estensione, volume e timbro. Se in un certo periodo di tempo è in carriera un tenore straordinariamente idoneo per il personaggio di Otello nell’opera di Verdi, si dia frequentemente l’”Otello”. Se circola una soprano avente le rare doti necessarie per la parte di Turandot, bene, si rappresenti spesso “Turandot”. La Scala fece questo quando Birgit Nilsson era nel pieno delle sue capacità e possedeva mezzi ideali per la fredda e implacabile protagonista dell’opera pucciniana.
Del resto in passato si andava anche oltre. Nella prima metà dell’Ottocento i teatri prima scritturavano i cantanti e poi incaricavano un librettista e un compositore di fare un’opera che aderisse nel migliore dei modi alle loro risorse vocali. Non solo, ma se l’opera, dopo la prima assoluta, passava a un altro teatro, con compagnia di canto diversa, il compositore metteva mano senza esitazione alla partitura per adattarla alle possibilità dei nuovi interpreti. Si dirà che, poveretto, era obbligato a farlo per guadagnare qualcosa e poter vivere. Ma quella di effettuare adeguamenti era pratica corrente anche per i musicisti più rinomati, senza grossi problemi economici, i quali si mettevano al lavoro volentieri poiché sapevano che solo in tal modo si potevano ottenere dai cantanti i migliori rendimenti e quindi assicurare il successo.
Già che sono in tema osservo che anche i direttori d’orchestra dovrebbero avere riguardi per le voci. Ad esempio può capitare che per una certa parte si disponga di un cantante eccellente ma che non può raggiungere un determinato acuto. Il direttore dovrebbe accettare di sopprimere la nota oppure di abbassare la tonalità del pezzo. Eppure von Karajan, per una “Bohème” scaligera di molti anni fa, non volle sapere di abbassare “Che gelida manina” per venire incontro a Di Stefano, il quale non avrebbe potuto produrre passabilmente il do sulla parola “speranza”. Rinunciò a Di Stefano. Cantò Raimondi. “Ha fatto il do ma non ha fatto il resto” commentò amaramente una abbonata del teatro. Fu un po’ cattiva, quella signora, poiché anche Raimondi era un ottimo tenore, ma in fondo centrò il problema. Su un altro punto occorrerebbe buon senso. Se la partitura prescrive un “fortissimo”, tuttavia il cantante disponibile ha un volume di voce scarso, allora il direttore dovrebbe rinunciare al “fortissimo” e ridurre la forza dell’orchestra fino al punto in cui lo spettatore può percepire la voce. La copertura totale del cantante da parte degli strumenti è uno degli inconvenienti maggiori che possano capitare in una esecuzione operistica.
Rientro in argomento per menzionare un caso assai speciale. A Londra la stagione BBC Proms comprende sette opere complete di Wagner ma neppure una di Verdi. Il fatto sorprende in quanto il valore di Verdi non è inferiore a quello di Wagner e la sua popolarità è perfino superiore, anche fuori d’Italia. Nella ricorrenza dei duecento anni dalla nascita di entrambi almeno una parità di trattamento sarebbe stata doverosa. Interrogato sulla faccenda il direttore della stagione dichiarò alla rivista inglese “Opera” che non era rimasto soddisfatto dei cantanti verdiani offerti e che a suo giudizio buone voci verdiane sono più difficili da trovare di quelle wagneriane. La risposta solleva un problema che va oltre la contingenza. Il fatto che in Wagner l’orchestra ha un peso superiore rispetto ai lavori di Verdi, i quali invece danno maggior risalto alle voci ed esigono di più da queste, fa sì che i cantanti veramente adeguati alla produzione del Bussetano siano più rari. Però l’autorevole rivista inglese vede uno spiraglio di speranza. L’opera sta prendendo quota rapidamente in Asia. In Cina si sono costruiti e si stanno costruendo molti teatri. Sembra anche che da quel Continente stiano arrivando cantanti di valore, ben preparati, in grado di diventare ottimi interpreti verdiani. Si è quasi tentati di pensare che il melodramma, penosamente decadente in Europa e particolarmente in Italia, possa ricevere nuova linfa in altre parti del mondo, svilupparsi, ritrovare tempi d’oro e magari un giorno rientrare, per così dire, in patria. Fantasie? Probabilmente sì. Però il caso avrebbe dei precedenti nella storia. Il balletto “Giselle” uscì dal repertorio dell’Opéra di Parigi nel 1868 ma continuò a vivere in Russia e quando Diaghilev giunse nella capitale francese con i suoi “Ballets russes” fece rappresentare, nel 1910, anche “Giselle”. Così i francesi, dopo oltre quarant’anni, riscopersero quel loro balletto e non lo abbandonarono più fino ai giorni nostri.
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