Affascinante Altstaedt a Lugano e grande Sokolov a Chiasso
Nel concerto per violoncello e orchestra in re maggiore di Haydn, che ha occupato la parte centrale del concerto dell’Auditorio svoltosi il 15 aprile, si susseguono un “allegro moderato” avente il carattere di una conversazione piacevole tra amici, un “adagio” elegiaco, solo per poche battute animato da un momento drammatico, e un “allegro” gioioso e al tempo stesso bonario: il tutto esposto con semplicità e naturalezza. Eppure, nonostante l’assenza totale di grandi sentimenti e di grandi aspirazioni, questa composizione costituisce un capolavoro, convince sempre il pubblico ed è una delle più eseguite nei concerti sinfonici. Non è facile scoprirne le ragioni. Certamente l’immensa fantasia di Haydn riesce, anche quando i contenuti non presentano particolarità fuori del comune, a trovare forme sempre diverse e sempre valide, che non lasciano cadere l’interesse dell’ascoltatore. Per esempio i due temi dell’”allegro moderato”, pur rientrando entrambi nell’ambito dell’amichevole conversazione di cui si diceva prima, posseggono caratteristiche inconfondibili. Il primo, esposto dai violini, si snoda in modo alquanto vario e il percorso prevalentemente per grado congiunto viene inframmezzato da intervalli larghi, in parecchi casi di un’ottava. Il secondo, a terze degli oboi, invece è più lineare, sale tranquillamente e poi ricade senza scosse. Del concerto in discorso il violoncellista Nicolas Altstaedt ha dato una interpretazione singolare. Per i tempi estremi si è distinto con volumi bassi, cavata scarna, fraseggi incisivi e scattanti, forti sbalzi dinamici, il tutto sorretto da una tecnica straordinaria; l’”adagio” invece è stato un sogno raffinatissimo. Si può discutere se una esecuzione del genere sia adeguata e rientri nello spirito della musica di Haydn; certamente il modo di suonare del solista ha affascinato, almeno in gran parte, gli ascoltatori.
Il concerto per violoncello e orchestra è stato per così dire incorniciato da due sinfonie, sempre di Haydn: la trentesima e la novantanovesima. Alexander Shelley, alla testa dell’Orchestra della Svizzera italiana, ha messo in luce chiarezza di idee e un forte istinto musicale. Le esecuzioni sono state agili, nitide e ben calibrate, grazie anche, va da sé, alle ottime prestazioni dell’orchestra.
Molto pubblico, molti applausi.
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Il 9 aprile Grigory Sokolov è stato ospite del Cinema Teatro di Chiasso. Le interpretazioni di questo pianista sono controllate e composte. Rifuggono dall’enfasi e dagli effetti appariscenti. L’uso del pedale è parsimonioso. Nei passaggi delicati il Sokolov usa mano leggerissima e riflette sommessamente i più riposti moti dell’animo. In quelli appassionati sa sempre conservare il pieno dominio della composizione e mostrarne chiaramente le strutture. Ha svolto un programma dedicato a Schumann (“Arabeske” op. 18 e Fantasia in do maggiore op. 17) e Chopin (Due notturni op. 32 e la Sonata numero due op. 35) integrato da sei (ripeto: sei!) pezzi fuori programma. Mi soffermo sul brano più conosciuto e atteso dal pubblico, ossia la marcia funebre della sonata op. 35 di Chopin. Per la prima parte il pianista ha scelto un tempo lento e volumi molto moderati, rinunciando anche a una scansione ritmica marcata. Così l’esecuzione, più che evocare una marcia, è diventata una meditazione tutta rivolta all’intimità. Nella seconda parte la mano destra ha delineato la melodia in assoluta purezza, senza gli indugi che, presso altri pianisti, anche famosi, la guastano mentre la mano sinistra ha rinunciato a dare forte rilievo agli arpeggi, che sono stati solo sfiorati, creando semplicemente un alone. Si può affermare che l’interpretazione si è astenuta dal creare un contrasto tra le due parti (imponente e austera la prima, dolce e serena la seconda) ma le ha assorbite in un’unica visione. Il risultato artistico è stato sublime. Nella ripetizione della prima parte – e qui sta la mia sola riserva – il Sokolov si è concesso un certo trasporto e una notevole amplificazione dei volumi. Un discorso non del tutto dissimile si può fare a proposito del quindicesimo preludio dell’op. 28, sempre di Chopin, uno dei tanti pezzi fuori programma. Anche qui esiste una tripartizione, con una prima parte dolce, cristallina, luminosa, che non si allontana mai dal “piano”, una seconda parte austera, che invece si spinge in qualche punto fino al “forte” o al “fortissimo”, e una ripresa di alcuni elementi della prima parte. Ho notato di nuovo una tendenza a smussare i contrasti e a conferire al tutto un tono di spiritualità.
Il teatro era completo; applausi e ovazioni sono andati via via crescendo nel corso della serata.
“Pocket Opera”
L’As.Li.Co., tra i tanti suoi meriti, annovera la cosiddetta “Pocket Opera” (opera tascabile). L’idea fondamentale è questa. In quasi tutte le cittadine italiane esistono teatri piccoli ma molto pregevoli, veri gioielli architettonici, non inferiori quanto a bellezza alle sale dei centri maggiori. A causa della loro dimensione non possono ospitare opere in allestimenti normali; anche i costi sarebbero per le rispettive località proibitivi. E allora ecco il rimedio: si allestiscono melodrammi in formato ridotto, con una orchestra comprendente una ventina di musicisti, un coro costituito dai comprimari che cantano assieme e scene per così dire spartane, anche se non banali, facilmente montabili, trasportabili e rimontabili. Per quanto concerne le voci, talvolta si ricorre a qualche cantante già bene in carriera (per esempio nel 2014 Francesco Paolo Vultaggio come Figaro nel “Barbiere di Siviglia” e nel 2015 Bianca Tognocchi come Adina nell’”Elisir d’amore”) ma in prevalenza a elementi giovanissimi. Con questi mezzi non si teme di mandare in scena anche capolavori di notevole impegno, quest’anno il “Rigoletto”. I risultati? Evidentemente non è possibile evitare in campo strumentale parecchi scompensi, soprattutto quando gli archi dovrebbero essere in primo piano. E tuttavia serietà e diligenza suppliscono nei limiti del possibile alla carenza di mezzi. Nel “Rigoletto” visto a Chiasso il 23 aprile (il Cinema Teatro ha già ospitato ripetutamente opere “tascabili”) il prodigarsi del direttore Jacopo Rivani, la felice scelta dei tempi e l’innegabile bravura di alcuni strumentisti non hanno mancato di soddisfare, a tratti, il pubblico. Insomma, la buona volontà ha fatto sì che lo spettacolo sia stato godibile anche per chi è abituato a vedere spettacoli nei teatri maggiori. Sicuramente iniziative di tal genere giovano a far risalire e diffondere la conoscenza dei melodrammi in una società che sembra avviata ad abbandonarli.
Per venire ai cantanti, due almeno meritano una segnalazione speciale. Innanzitutto l’interprete del protagonista, il baritono Luis Choi, che possiede una voce di potenza considerevole e di ottima qualità, specialmente in zona centro-acuta (a giudicare dal nome e dall’aspetto è asiatico: ancora una volta un cantante valido giunge da quel Continente, nel quale si aprono teatri d’opera a ritmo serrato). D’altra parte Lucrezia Drei, una soprano che con mezzi molto estesi, un timbro dolce e delicato e non da ultimo una notevole capacità di partecipare intensamente alle vicissitudini del suo personaggio, è stata una Gilda convincente. Non dimenticherei però Olesya Berman Chuprinova, scatenata nel dar vita a Maddalena, prima come seduttrice in funzione della professione di sicario del fratello, ma poi sedotta ella medesima da quell’irresistibile libertino che è il Duca di Mantova.
Sul piano visivo purtroppo la “pocket opera” non si sottrae all’andazzo generale che sconvolge attualmente il teatro d’opera. Il primo quadro del primo atto è stato un seguito di sciocchezze. Rigoletto si è presentato come un signore in elegante abito scuro. Si dice che simili “aggiornamenti” piacciono ai giovani e li attirano in teatro. Davvero? Nell’intervallo ho avuto il piacere di incontrare un gruppo di ragazzi. Ecco alcuni dei loro commenti: “Che brutti costumi!”, “È tutto sbagliato”, “Non ho capito niente”, “Ma Rigoletto non doveva avere la gobba?”.
Pubblico abbastanza numeroso, molti applausi.
Carlo Rezzonico
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