“Winterreise” in un balletto all’Opernhaus di Zurigo

Nov 16 • Prima Pagina, Sport e Cultura • 1310 Views • Commenti disabilitati su “Winterreise” in un balletto all’Opernhaus di Zurigo

Spazio musicale

Occorre coraggio per fare un balletto ispirato al ciclo di Lieder “Winterreise” di Schubert su versi di Wilhelm Müller. Già la creazione di un’opera d’arte partendo da un capolavoro di un’altra arte richiede un impegno fuori del comune e fa correre rischi. Si stabilisce infatti un termine di confronto assai alto. Nel caso della “Winterreise” poi ci troviamo in presenza di una serie di numeri che si riferiscono a un antefatto non narrato, tranne i due primi Lieder, i quali contengono frammenti di azione e fanno conoscere la parte finale di quanto è accaduto. Per il resto il ciclo non fa che manifestare i turbamenti e i sentimenti tristi, solo occasionalmente interrotti da reazioni volitive, che si susseguono nell’animo di un uomo rifiutato dalla donna amata. Per evitare la ripetitività e la noia sono state necessarie l’immaginazione fervida del Müller, che ha saputo trovare, tra l’altro, una fila di metafore assai belle e originali, e la straordinaria fantasia musicale di Schubert, capace di rinnovare continuamente l’assunto e di mettere a fuoco ogni aspetto della sensibilità del protagonista, sia con il canto sia, ancor più, con l’incomparabile accompagnamento pianistico. Detto questo, ora pensiamo al coreografo e alle domande che si sarebbe potuto porre: saprà mettere in atto sul piano della danza risorse tali da dar vita visivamente ai contenuti che animano i Lieder? saprà uguagliare costantemente, nel profilo artistico, il lavoro del poeta e del compositore? eviterà la monotonia e il tedio presso lo spettatore?

Christian Spuck, che si è avventurato in questa impresa per l’Opernhaus di Zurigo, ha intuito le difficoltà e in parte le ha aggirate allontanandosi volutamente dall’opera ispiratrice. Lo ha fatto già in campo musicale scegliendo, al posto dei Lieder di Schubert nella versione originale, la cosiddetta “komponierte Interpretation” (interpretazione compositiva) fattane da Hans Zender, direttore e compositore tedesco nato nel 1936. Questi ha esposto le sue idee sulla nota del CD RCA, Ensemble Modern, dicendo tra l’altro di aver voluto sottoporre alla disciplina della composizione le libertà che ogni interprete si attribuisce normalmente in modo intuitivo come accelerazioni e rallentamenti, trasposizioni in altre tonalità e sfumature nei colori. Dal lato coreografico lo Spuck ha preso a sua volta le distanze, ad esempio asserendo, sul programma di sala, che in certi momenti la danza dev’essere ridotta quasi a zero e che un forte accento musicale non va necessariamente doppiato da un grande sollevamento mentre un piccolo gesto può produrre un effetto migliore.

L’esito è stato di notevole valore. Nel lavoro di interpretazione compositiva lo Zender si è mantenuto complessivamente fedele allo spirito dei Lieder schubertiani e benchè disponesse di un’orchestra comprendente i legni e gli ottoni di un complesso sinfonico (però solo dodici archi tra violini, viole, violoncelli e contrabbassi) non ha ceduto alla tentazione di calcare la mano su volumi e colori. Sul versante visivo lo Spuck ha rinunciato opportunamente a presentare il protagonista dei Lieder in una fila di assoli; anche il cantante, che avrebbe potuto assumere il compito di farlo presente durante tutto lo spettacolo, si è limitato a poche brevi apparizioni in palcoscenico. Hanno dominato invece i pezzi d’insieme, soprattutto duetti, alcuni dei quali svolti contemporaneamente da diverse coppie. Dai vari numeri sono emerse via via le condizioni psicologiche dell’uomo rifiutato, dalla tristezza alla disperazione, dall’ansia alla desolazione, fino al senso di morte. Quasi ovunque lo Spuck ha mostrato una considerevole ricchezza di invenzione coreografica, intensa senza forzature, trascinante senza cadute del gusto, originale senza stranezze. In un balletto dove non esistono parti per stelle (solitamente si dice “étoiles”: non vedo perché non si debba usare il termine italiano) ma esiste invece una grande varietà di ruoli impegnativi per numerosi interpreti, quindi un balletto che mette a dura prova le forze di una compagnia, il complesso zurighese ha dato una splendida dimostrazione di efficienza. Parole di grande elogio siano dette anche per gli strumentisti della Philharmonia Zürich e il direttore Emilio Pomàrico: si sono distinti per una grande raffinatezza e per aver saputo ricavare i giusti impasti timbrici. Inappuntabile la prova del tenore Thomas Erlank. Così le attese del pubblico (tanto erano alte che il teatro è andato esaurito in un baleno per tutte le dieci rappresentazioni e l’Opernhaus, allo scopo di accontentare qualcuno in più, ha inserito una rappresentazione supplementare non prevista dal calendario) sono state ampiamente soddisfatte. Questa nota si riferisce alla rappresentazione del 2 novembre.

OSI al LAC

 

La parte solistica del concerto per violino e orchestra di Sibelius ha fama di essere uno dei lavori tecnicamente più ardui e virtuosistici esistenti in tale genere. Ma va subito osservato che, fatta eccezione per la cadenza principale del primo tempo, dove l’intenzione di stupire l’ascoltatore è evidente, non ci troviamo in presenza di funambolismi fini a se stessi. I passaggi più difficili svolgono invece una funzione nell’architettura della composizione e nei suoi valori espressivi. L’introduzione al primo tempo offre immediatamente un esempio interessante. Su un mormorio dei violini primi e secondi divisi il violino solista esegue una melodia lirica impregnata di tristezza ma sotto sotto anche turbata da inquietudine. Con gli arpeggi e le scale successivi l’inquietudine diventa affanno e questo tocca un culmine in una breve cadenza che si spinge fino al “fortissimo”. La cadenza in questione non è dunque concepita come pura occasione di bravura ma si inserisce in un discorso coerente. Il giovane violinista armeno Sergey Khachatryan, che si è presentato l’8 novembre al LAC con l’Orchestra della Svizzera italiana diretta da Valentin Uryupin, è un interprete tecnicamente dotato ed estroso. Ha affrontato lo spartito con ardimento e disinvoltura. Certe bellissime note acute hanno abbagliato come saette. La sua esecuzione peraltro non è stata esente da qualche alto e basso.

 

Per la seconda sinfonia di Cajkovskij, che ha occupato il resto della serata, il direttore Valentin Uryupin, a sua volta molto giovane, ha adottato una linea interpretativa personale. In una partitura ridondante di “fortissimo” (le indicazioni “ff” non si contano) ha moderato alquanto i volumi, evitando scrupolosamente fragori ed esplosioni sonore. D’altro lato ha svolto un minuzioso lavoro analitico, che tuttavia non si è perso, per così dire, in un arido culto del particolare ma ha vivificato tutta la composizione, ad esempio sviscerando valori preziosi negli interventi dei legni o curando la rotondità del suono e l’espressione del notevole patrimonio melodico contenuto nella sinfonia. Ne è risultata una versione insolita, forse poco cajkovskijana nell’idea che solitamente ci si fa della produzione del compositore russo, ma fresca e vivace. Evidentemente il merito spetta anche all’Orchestra della Svizzera italiana, che ha seguito il direttore nel migliore dei modi. Degne di lode le prime parti, specialmente il corno solo, che ha delineato con impeccabile fraseggio la bella frase con cui la composizione prende avvio.

 

Pubblico numerosissimo, come sempre, applausi intensi per il Khachatryan, ancora più calorosi per il direttore e l’orchestra dopo la sinfonia di Cajkovskij.

 

Carlo Rezzonico

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