Un “Barbiere di Siviglia” filologico al LAC
Spazio musicale
La RSI Radiotelevisione svizzera, il LAC, Lugano in Scena e Lugano Musica hanno deciso di commemorare i centocinquanta anni dalla morte di Gioachino Rossini con un allestimento filologico della sua opera più popolare, “Il barbiere di Siviglia”, affidandone la guida musicale a Diego Fasolis. Scrive il direttore negli appunti figuranti sul programma di sala: “… mi impegno a riportare nell’esecuzione alcune prassi storiche come l’uso costante delle appoggiature prosodiche, varianti improvvisate, libertà ritmiche ‘con la voce’ mentre cercheremo di limitare gli orpelli romantici ‘strappa-applauso’ quali inutili acuti tenuti e ‘strette’ non indicate dall’autore”. Rispetto alle versioni del “Barbiere” rossiniano alle quali siamo abituati ho notato una sovrabbondanza di vocalizzi che talvolta mi ha disturbato. Quanto agli acuti sono stati esclusi quello al termine del “Factotum” e quello al termine della “calunnia”; ma c’è stato d’altra parte un bello e lungo acuto di Don Bartolo alla fine della sua scena che ha permesso a Riccardo Novaro, l’interprete del personaggio, di mettere in luce una voce assai forte e ben calibrata nonché di …strappare molti applausi. Nel complesso l’esecuzione musicale ha dato soddisfazione. L’orchestra “I Barocchisti” si è rivelata precisa, agile, sciolta, arguta, spesso perfino deliziosa, anche se a volte troppo discreta e troppo raffinata, a scapito degli slanci generosi che caratterizzano l’opera. Mezzi estesi, ampi nel volume e di ottimo timbro possiede il baritono Giorgio Caoduro, che come Figaro ha cantato e agito con simpatica spontaneità e vivacità. Non proprio limpida e gradevole, però incisiva e penetrante è la voce del tenore Edgardo Rocha, interprete del Conte di Almaviva; ha usato bene i suoi mezzi e in particolare si è disimpegnato molto dignitosamente nella grande tirata finale (solitamente tagliata). Come Rosina, Lucia Cirillo ha svolto un buon lavoro anche se non è una vera contralto e se le sue emissioni denotano una certa carenza di volume e consistenza nell’ottava bassa mentre gli acuti esplodono e sono a volte un tantino gridati. Abbastanza adeguate alla sua parte le risorse vocali di Ugo Guagliardo (Basilio) e brava Alessandra Palomba (Berta). A posto i comprimari e il Coro della Radiotelevisione svizzera.
Quanto agli aspetti visivi dello spettacolo il regista Carmelo Rifici ha esposto sul programma di sala alcune idee assai personali. Mi sembra strana l’affermazione che il capolavoro rossiniano superi la struttura sia dell’opera buffa sia dell’opera romantica, visto che a quei tempi il romanticismo non aveva ancora fatto il suo ingresso nel melodramma italiano e quindi non capisco come il giovane Rossini potesse averlo superato. Esiterei poi a dire che il “Barbiere” sia un’opera “feroce”. Inoltre non darei tanto peso alla “febbre dell’oro” o al “denaro che tutto muove” (espressioni di moda oggigiorno) che dominerebbe la prima parte; a mio parere siamo in presenza semplicemente di una bonaria ironia.
L’impianto scenico ha compreso un grande palazzo avvolgente tutto il palcoscenico all’interno del quale, producendo un contrasto assai marcato, venivano portati successivamente vari aggeggi molto stilizzati posti al servizio dell’azione. In tale ambito il Rifici ha mosso bene i personaggi, evitando lazzi e volgarità e quindi lasciando all’opera il carattere di commedia: un merito non da poco, visto che la tendenza dei registi moderni a strafare sfocia spesso, per quanto concerne il “Barbiere”, nella farsa. D’altro lato però non mi sono piaciute le folle di strane comparse gesticolanti e saltellanti che molto spesso hanno invaso la scena e distratto l’attenzione dai veri valori dell’opera, che sono innanzitutto i valori musicali.
Tutto sommato, questo primo spettacolo operistico completo presentato al LAC è stato una esperienza positiva, interessante e per parecchi aspetti convincente. La sera della “prima”, quella del 3 settembre, la sala era completa; successo calorosissimo.
Poemi sinfonici di Richard Strauss a Lucerna
Ci sono molti contenuti e molti valori nei poemi sinfonici di Richard Strauss, sia in termini di fatti descritti sia in termini di stati d’animo sia ancora in termini di pensiero. Così nel “Don Juan”, la narrazione delle azioni riprovevoli compiute dal libertino si accompagna a una tormentosa manifestazione delle convulsioni che si agitano in lui e, inoltre, alla concezione del protagonista come un uomo spinto da forze che non riesce a dominare e alla fine lo schiantano. D’altra parte, in “Tod und Verklärung” appaiono i ricordi e i sentimenti di un moribondo restio ad accettare il destino assegnatogli; la composizione tuttavia non si conclude con il suo decesso ma con una trasfigurazione presentata in una veste musicale ampia e grandiosa eppure intrisa di una toccante e consolante spiritualità. Importante è sottolineare che entrambi i poemi sinfonici possono essere ascoltati e goduti anche prescindendo da avvenimenti o concetti precisi e quindi apprezzati alla stregua di una sinfonia o un concerto privo di programma. Questa circostanza mostra che Strauss non si rese schiavo della preoccupazione di narrare fatti né di esprimere sentimenti e concezioni filosofiche in stretta relazione con i fatti stessi. Seppe invece restare musicista e fare musica, spesso di ottima qualità. In ciò si distinse da quei compositori moderni che mettono in prima linea intellettualismi di ogni genere e lambiccate situazioni psicologiche subordinandovi totalmente la musica e facendo nascere lavori studiatissimi e oltremodo complessi ma incapaci di convincere la maggior parte del pubblico.
Tali riflessioni mi ha suggerito la prima parte del dodicesimo concerto sinfonico del Lucerne Festival 2018, che ha fatto ascoltare i due poemi sinfonici ai quali ho accennato sopra. Di turno nella città della Reuss erano i Berliner Philharmoniker e, sul podio, Kirill Petrenko, che diventerà il capo del famoso complesso a partire dalla stagione 2019/2020. Ne hanno dato versioni splendide. Nel “Don Juan” l’insorgere degli impeti passionali all’inizio è stato fulminante mentre, su un altro versante, il lungo episodio con l’oboe solo ha espresso magistralmente, grazie a una esecuzione delicatissima, una ineffabile nostalgia. In “Tod und Verklärung” mi ha colpito particolarmente il sottofondo cupo, lontano, avvolto da mistero ma così intensamente doloroso creato dall’orchestra al ritmo irregolare descrivente i battiti stanchi e sfasati del cuore di un uomo morente. Potrei continuare a lungo con gli esempi per mettere in rilievo i pregi di prestazioni straordinarie.
Nella seconda parte della serata l’esecuzione della settima sinfonia di Beethoven ha scatenato gli entusiasmi del pubblico (l’auditorio era esaurito) ma, a mio parere, non ha uguagliato alcune interpretazioni memorabili di questo lavoro offerte in passato, a Lucerna o altrove, dai Berliner Philharmoniker.
Carlo Rezzonico
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