Un Bach insolito ai concerti “OSI in Auditorio”
Spazio musicale
Solitamente alle trascrizioni di brani musicali ci si accosta con diffidenza. Sorgono molte domande. Sono ammissibili oppure le scelte strumentali del compositore devono essere considerate intoccabili? Intoccabili anche quando c’è da supporre che vennero condizionate dalla volontà di un committente o da una disponibilità limitata di esecutori? Nelle trascrizioni i guadagni di valori superano le inevitabili perdite o ne rimangono inferiori? L’autore ha rispettato nella maggior misura possibile il testo originale oppure si è concesso libertà? Questi punti interrogativi, almeno in parte, si sono presentati anche per il programma del primo concerto “OSI in Auditorio”, svoltosi il 18 novembre all’Auditorio Stelio Molo di Lugano, dedicato a trascrizioni di brani scritti da Giovanni Battista Pergolesi (“Palestrina Konzert”), Girolamo Frescobaldi (“3 pezzi per organo”), Giovanni Gabrieli (“Canzona a tre voci”), Lodovico Grossi da Viadana (“Sinfonia Napoletana, Veronese, Romana, Mantovana”) e Bach (Estratti dall’”Arte della fuga”). Tuttavia le qualità e la fama dei trascrittori (Bruno Maderna per Pergolesi, Frescobaldi, Gabrieli e Grossi da Viadana; Hermann Scherchen per Bach) erano tali da far passare in secondo piano ogni riserva e da rendere attraente il concerto. Veramente avrei gradito poter ascoltare prima le composizioni originali e immediatamente dopo le trascrizioni; ma sarebbe stato chiedere troppo.
La prima parte della serata, comprendente i lavori di Pergolesi, Frescobaldi, Gabrieli e Grossi da Viadana, è complessivamente piaciuta al pubblico ma non ha suscitato consensi che andassero oltre gli applausi di cortesia. In effetti, nonostante la perizia e l’impegno di Bruno Maderna e nonostante le prestazioni impeccabili da parte del direttore Dennis Russell Davies e dell’Orchestra della Svizzera italiana, che hanno fatto godere una grande finezza e una grande morbidezza delle sonorità, i brani del Cinquecento, del Seicento e del primo Settecento non possono convincere pienamente il pubblico d’oggi, abituato ad ascoltare la produzione musicale assai più ricca, nelle forme e nei contenuti, venuta nei secoli successivi. Di scarso interesse è stato anche il lavoro di Grossi da Viadana benchè abbia utilizzato tre gruppi di strumenti (l’orchestra più una specie di concertino composto da quattro fiati e un’altra specie di concertino composto da cinque archi), tuttavia senza vero dialogo tra di loro. Al relativo grigiore ha fatto parzialmente eccezione la composizione di Pergolesi grazie a una certa freschezza e a una felice inventiva.
Dopo l’intervallo, con gli estratti dall’”Arte della fuga” di Bach, si è passati alla parte più attesa del programma. Poiché il compositore non prescrisse lo strumento o gli strumenti da utilizzare, si potrebbe dire che ogni esecuzione non costituisca propriamente una trascrizione ma piuttosto un completamento dell’opera (anche se parecchi musicologi, con buone ragioni, danno per sicuro che Bach avesse in mente uno strumento a tastiera). In ogni caso la trascrizione per un complesso comprendente anche fiati e ottoni facilita l’ascolto sul piano tecnico, e quindi può essere utile, in quanto le differenze di timbro tra le melodie intrecciate nel contrappunto facilitano la percezione distinta di ognuna di esse. Per venire ora all’esecuzione del 18 novembre a Lugano va detto che Dennis Russell Davies ha scelto tempi lenti, messo in risalto certe melodie e lasciato in secondo piano certe altre, a volte ridotte quasi a filigrane. Inoltre ha prodotto molte sfumature e chiaroscuri, creando suggestive atmosfere. Con una impostazione del genere naturalmente la musica si è caricata di una grande intensità espressiva. Senza dubbio tutto questo non ha corrisposto alle intenzioni di Bach, eppure l’esito è stato affascinante e alla fine la temperatura degli applausi, per così dire, è salita alquanto rispetto alla prima parte. Festeggiata dunque l’Orchestra della Svizzera italiana, autrice ancora una volta di un’ottima prestazione, e Dennis Russell Davies, un musicista valido, dotato di intuito e sensibilità, ma dai modi semplici, modesti, felpati e morbidi, come le sonorità che con tanta bravura ha saputo ottenere dall’orchestra.
Il concerto era inteso come un omaggio a Hermann Scherchen, nato a Berlino nel 1891, morto a Firenze nel 1966, direttore d’orchestra, didatta e in misura più limitata compositore. Questo eminente musicista fu strettamente legato per diversi motivi al Cantone Ticino. In special modo chi non è più giovane avrà nella mente un vivissimo ricordo dell’esecuzione, proprio all’Auditorio di Lugano Besso, delle nove sinfonie di Beethoven in una serie di concerti. Era senza dubbio doveroso per l’Orchestra della Svizzera italiana dedicargli, nel cinquantesimo del decesso, un riconoscente pensiero.
Romanovsky a Chiass
Anche il Cinema Teatro di Chiasso si è distinto con una serata assai speciale. Il 19 novembre ha avuto come ospiti il pianista Alexander Romanovsky e la voce recitante Michele Placido in un programma comprendente nella prima parte “Carnaval” op. 9 di Schumann intercalato da testi del poeta creolo di lingua francese Armand Godoy e nella seconda parte i “Quadri di un’esposizione” di Musorgskij intercalati da testi di Anton Checov. L’idea di creare un’alternanza di pezzi musicali e frammenti parlati non è stata a mio parere felice per due motivi. In primo luogo la musica utilizza mezzi artistici diversi da quelli di cui si serve la letteratura; pertanto anche l’atteggiamento dell’ascoltatore dev’essere diverso. Presentare un brano musicale, poi uno parlato, poi di nuovo uno musicale e così via per decine di volte costringe a una specie di balletto intellettuale che non giova alla concentrazione. Ciò vale anche quando esiste un rapporto tra i due tipi di espressione, come nel caso del “Carnaval”, dove il Godoy ha cercato di “ridare nei suoi versi il senso, le suggestioni e il ritmo ‘cordiale’ di ciascuna delle scene” (ho citato il programma di sala). In secondo luogo va detto che composizioni musicali come quelle eseguite a Chiasso, pur essendo costituite da una moltitudine di brevi brani aventi ciascuno una particolare fonte di ispirazione, non sono per nulla frammentarie, ma rispondono a un concetto di varietà e di contrasti che ne fanno una unità; non si facilita certo la loro fruizione aggiungendo lunghi inserimenti letterari. D’altra parte ho apprezzato la proiezione su uno schermo dei titoli dei singoli pezzi, che hanno costituito un prezioso orientamento per il pubblico. Mi piacerebbe che l’idea venisse applicata anche ai poemi sinfonici: sarebbe utile indicare per questa via il programma a mano a mano che la musica lo svolge.
Molti elogi vanno detti al pianista. Il suo dominio delle composizioni musicali eseguite è totale e nessun particolare sfugge all’ascoltatore. Sa sviluppare un grande volume senza “picchiare”. La sua tecnica si caratterizza, tra l’altro, per un sollevamento molto alto delle mani, che sembrano rimbalzare continuamente sulla tastiera, lasciando alla musica elasticità anche nei momenti di maggior forza. Possiede un infallibile senso del ritmo. Grande è la varietà dei colori. La sua gamma espressiva passa con sicurezza dalle notazioni umoristiche (deliziosi per esempio l’”Arlequin” del “Carnaval” e il “Balletto dei pulcini nei loro gusci” nei Quadri di un’esposizione”) ai pezzi più severi (“Catacombae”) e a quelli più imponenti (“La porta di Bohatyr di Kiev”). Non da ultimo sia lodato per aver saputo mantenere sempre viva la tensione esecutiva nonostante la diluizione del suo lavoro di interprete in un mare di parole.
Con piacere abbiamo saputo che il Romanovsky risiede a Chiasso: da qui parte per i suoi concerti nelle sale più famose del mondo e qui ritorna a viaggi conclusi. Il direttore del Cinema Teatro Calvia gli ha strappato la promessa di esibirsi a Chiasso anche in futuro. Me ne rallegro, auspicando che i chiassesi, la prossima volta, facciano maggior onore all’ospite illustre della loro città accorrendo più numerosi. Il pubblico era in ogni caso folto grazie a spettatori provenienti dall’estero, tra i quali una schiera di eleganti signore russe, più intente però a scattare fotografie che ad ascoltare la musica. Applausi molto convinti.
Carlo Rezzonico
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