Interessanti rarità ai Concerti dell’Auditorio
Spazio musicale
A composizioni raramente eseguite, fatta eccezione per i ballabili 1 e 2 dell’”Idomeneo” di Mozart, è stato dedicato il secondo concerto dell’Auditorio, svoltosi il 16 gennaio all’Auditorio Stelio Molo di Lugano. La prima di esse, il Concerto per violoncello e orchestra numero 1 di Martinu, si articola nei tradizionali tre tempi: un “allegro moderato” dall’inizio colorito, luminoso ed esultante, che si distingue per il dialogo, spesso teso, a volte perfino serrato, tra il solista e l’orchestra; un “andante poco moderato” tutto percorso da un senso di desolazione, che nella parte conclusiva si spegne a poco a poco; infine un “allegro con brio” deciso, anch’esso imperniato su botta e risposta tra il solista e l’orchestra, con una parte centrale intensamente lirica, prima di una breve, rapida e incandescente perorazione finale. La composizione è sorretta da una inventiva per lo più intensa, che la rende interessante e godibile grazie ai puri valori musicali (il compositore si è tenuto alla larga da elucubrazioni tecniche o filosofiche, ai suoi tempi assai di moda).
L’altro lavoro raramente eseguito è stata la sinfonia “Mathis der Maler” di Hindemith, presentata la prima volta a Berlino nel 1934 e seguita a breve distanza di tempo dall’opera omonima. Questa, per ragioni politiche, non potè essere rappresentata in Germania ed ebbe la prima assoluta solo nel 1938 allo Stadttheater di Zurigo (così si chiamava allora l’Opernhaus). I primi due tempi, designati “Engelkonzert” e “Die Grablegung”, passarono tali e quali, o quasi, nell’opera mentre il terzo, recante il titolo “Versuchung des heiligen Antonius” subì vari adattamenti. L’”Engelkonzert” comincia in modo austero ma poi si scioglie in un discorso musicale brioso e leggero fino a diventare una spumeggiante festa di colori. È difficile da apprezzare in sede sinfonica “Die Grablegung”, che invece nell’ambito dell’opera acquista maggior senso, riflettendo i sentimenti del protagonista invecchiato e, dopo aver terminato la sua opera maggiore, alla ricerca di tranquillità. Da ultimo “Versuchung des heiligen Antonius”, partendo da violente espressioni demoniache, si erge, con il superamento delle tentazioni da parte del Santo, a toni grandiosi e trionfali.
Le interpretazioni sono state degne di ogni lode. Il merito spetta al direttore Lukasz Borowicz, all’Orchestra della Svizzera italiana e, per quanto concerne il concerto solistico, al violoncellista Christian Poltéra. Gli applausi al termine di ogni numero del programma non hanno lasciato dubbi sul gradimento del pubblico.
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Un’altra serata di grande interesse e alta qualità è stata quella del 23 gennaio. Sul podio c’era Markus Poschner e come solista ha partecipato la violinista Alina Pogostkina. Ha aperto il programma la suite per orchestra all’”Opera da tre soldi” di Weill in una esecuzione di primo ordine. Poi è stata la volta del Concerto per violino e orchestra n. 1 di Prokofiev. La Pogostkina fin dall’inizio ha per così dire mostrato gli artigli con un piglio ardimentoso e aggressivo. Dallo strumento è stata capace di cavare suoni bellissimi. Però il volume scarso ha generato qualche squilibrio con l’orchestra. Nella seconda parte il direttore e l’Orchestra della Svizzera italiana si sono fatti ammirare per una impeccabile lettura della Sinfonia 103 Hob:1:103 di Haydn.
“L’elisir d’amore” e il pianista Albanese a Chiasso
È una felice iniziativa dell’AsLiCo quella di presentare melodrammi in allestimenti tali da poter essere ospitati in teatri relativamente piccoli. Il Cinema Teatro di Chiasso ne ha approfittato con “Così fan tutte”, “Il barbiere di Siviglia” e quest’anno “L’elisir d’amore”. Sul piano musicale l’esecuzione dell’opera donizettiana è stata di buon livello. Per tutte le parti principali si sono esibiti cantanti validi e adatti ai rispettivi personaggi. Il tenore Giovanni Sala si è disimpegnato lodevolmente nei panni di Nemorino; ha acuti ben timbrati e potrebbe ulteriormente migliorare se riuscisse a dare più consistenza al centro. Voci assai belle e robuste hanno sfoggiato il baritono Paolo Ingrasciotta come Belcore e il basso Vincenzo Nizzardo come Dulcamara: due cantanti giovani, ai quali potrebbe prospettarsi un futuro ricco di soddisfazioni. Sul versante femminile ha convinto l’Adina di Bianca Tognocchi. Ho apprezzato questa soprano poche settimane fa al Teatro Sociale di Como, quando si è destreggiata validamente alle prese con i funambolismi vocali della parte di Olimpia nei “Racconti di Hoffmann”. La sua prestazione a Chiasso ha migliorato ulteriormente il mio parere su di lei. Dispone di mezzi ben sostenuti su tutta l’estensione, che è notevole, consentendole di produrre acuti sicuri e ben intonati. Vocalizzi incisivi, dizione chiara, fraseggi accurati, mezzevoci limpide completano le sue buone qualità. Lucrezia Dei, come Giannetta, è stata impegnata poco, però quel poco le è bastato per mettere in rilievo voce bella e disinvoltura in scena. Sul podio c’era Walter Borin: ha diretto con mano sicura, ottenendo da un piccolo complesso strumentale (una quindicina di elementi) prestazioni degne di rispetto.
Il programma di sala conteneva alcune note di regia che costituiscono una fila di vertiginose sciocchezze. Nei fatti la regia è stata un pullulare di idee di ogni genere, che gli interpreti hanno attuato con simpatico e giovanile entusiasmo; ma tale impostazione ha contraddetto lo spirito e i valori dell’opera, disturbandone in misura considerevole il godimento artistico.
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Il 25 gennaio, al Cinema Teatro di Chiasso, il pianista Giuseppe Albanese ha svolto un programma dedicato a Schumann (Fantasia op. 17), Beethoven (Sonata “Al chiaro di luna”) e Schubert (“Wanderer-Fantasie”). Di queste composizioni ha approfondito con acume e sensibilità gli aspetti romantici – le finezze del sentimento, le atmosfere trasognate ma anche le passioni e gli impeti vigorosi – tuttavia mantenendo un atteggiamento di costante controllo e compostezza. Nonostante disponga di una tecnica agguerrita non si è lasciato sedurre dalla tentazione di abusarne e di sconfinare nel puro esibizionismo. D’altra parte ha evitato ogni concessione al romanticismo di maniera e alle sbavature. Insomma ha saputo trovare il difficile equilibrio tra tecnica, partecipazione espressiva e gusto.
Alla fine del concerto, dopo due numeri fuori programma (il primo di strabiliante virtuosismo, il secondo per la sola mano sinistra), l’Albanese ha rivolto agli ascoltatori alcune parole per informarli dei suoi legami familiari con Chiasso (tra l’altro la madre è nata qui). Anche in questa occasione si è fatto apprezzare per la dignitosa semplicità e l’accuratezza nell’abito, come si conviene a chi si presenta a un pubblico. Bene ha fatto il direttore del Cinema Teatro Armando Calvia, anche lui rimasto sorpreso dell’esistenza di quei legami, a rallegrarsene e a fare la promessa di invitare nuovamente il pianista. È quanto auspico anch’io, nella speranza che i chiassesi si degnino di partecipare in maggior numero (erano presenti suppergiù cento persone, però tutte così entusiaste che gli applausi parevano quelli di duecento).
Balletti a Zurigo
Chi va all’Opernhaus di Zurigo a vedere il balletto “das siebte blau” (le iniziali sono minuscole sulla locandina) ha la sorpresa, quando il sipario si apre, di vedere in scena un quartetto d’archi. Ma se legge il programma di sala trova la spiegazione. Christian Spuck, il coreografo, ha voluto sottolineare l’importanza attribuita alla musica nel suo lavoro. Tuttavia ciò non significa che abbia mirato a tradurre la musica in termini di danza; significa invece che ha voluto creare un dialogo tra le due arti. E poiché in ogni dialogo possono nascere contrasti, così passi e pose non necessariamente coincidono con le note. Su una impostazione del genere, sulla sua opportunità e perfino sulla sua attuabilità si potrebbe aprire un discorso assai lungo. Mi limito a dire che, in “das siebte blau”, la danza effettivamente si rende molto indipendente dalle caratteristiche formali ed espressive della musica, ma non ho trovato traccia di un dialogo avente un senso. Piuttosto il balletto mi è parso un lavoro di danza astratta in cui il quartetto produce semplicemente una musica di fondo, specialmente nella prima parte, quando i musicisti si trovano in posizione alquanto arretrata rispetto al pubblico. Una danza astratta, desidero dirlo subito, di ottima qualità. Lo Spuck ha prodotto belle idee a getto continuo e il balletto non ha mai perso ritmo né continuità. Impeccabile è stato il corpo di ballo dell’Opernhaus.
Nello stesso spettacolo, designato “Strings” perché fa largo uso di musica per archi, si è visto “workwithinwork” (di nuovo la mania delle minuscole) di Forsythe. Qui il coreografo americano attinge in misura notevole al vocabolario accademico ma piegandolo al suo inconfondibile stile personale, con cui plasma i corpi degli interpreti come se fossero materia in ininterrotta, fluida e trascinante trasformazione. A conclusione della serata è stata posta una novità assoluta (i primi due balletti erano novità per la Svizzera) dovuta a Edward Clug e chiamata “Chamber Minds”: una serie di duetti imbastiti sull’antagonismo uomo-donna, con punteggiature umoristiche. È stato il numero più debole dello spettacolo. Anche per Forsythe e Clug il corpo di ballo zurighese ha messo nuovamente in luce una forma smagliante.
Sul piano musicale si è fatto ricorso per il primo balletto prevalentemente a estratti dal quartetto “La Morte e la Fanciulla” di Schubert, per il secondo a “Duetti per due violini, Vol. 1” di Berio e per il terzo a una partitura di Milko Lazar. Tra gli esecutori, tutti degni di molte lodi, ha fatto spicco l’eccellente violinista Hanna Weinmeister.
Carlo Rezzonico
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