Il tema dell’identità ha caratterizzato il Lucerne Festival
Spazio musicale
L’Orchestre de l’Opéra national de Paris, diretta da Philippe Jordan e con la partecipazione del pianista Bertrand Chamayou, ha svolto il diciassettesimo concerto sinfonico del Lucerne Festival.
La serata è stata aperta dal “Prélude à l’après-midi d’un faune” di Debussy eseguito con molto riguardo agli aspetti onirici, meno alla languida sensualità. Un filo di musica flebile e lontano ha prodotto il flauto all’inizio, più vicino al “pianissimo” che al “piano” figurante sulla partitura.
Poi è stata la volta del quinto concerto per pianoforte e orchestra di Saint-Saens. Mi soffermo su questa composizione, che offre lo spunto per alcune considerazioni particolari. Ad essa si muovono diverse critiche. È un lavoro in cui l’indiscutibile abilità del musicista, tanto nell’uso dello strumento solista quanto nella scelta dei colori e delle armonie orchestrali, non viene sempre affiancata dalla capacità di produrre idee convincenti e da un controllo adeguato del gusto (mi sono permesso, in questa frase, di riprendere parole che usai nel 1996 scrivendo su un concerto all’Auditorio RSI di Lugano). Effettivamente non mancano passaggi manierati e miranti ad accarezzare le orecchie degli ascoltatori. L’obbiettivo di piacere è evidente su tutto l’arco della composizione. Ma è un peccato davvero grave? Non sarebbe utile che i compositori nostri contemporanei, spesso impegnati solo a inseguire visioni filosofiche o accorgimenti tecnici estremamente personali, si ricordino del pubblico e compiano qualche sforzo per riconciliarsi con lui? Perché non tentare una via che riduca la componente intellettualistica e presti attenzione, senza cadere nella volgarità o nella banalità, ai desideri della maggior parte dei frequentatori di concerti sinfonici? Certamente Saint-Saens con il quinto concerto per pianoforte e orchestra, pur partendo da una attitudine encomiabile verso il pubblico, si è spinto un po’ in là nella ricerca di consensi. E tuttavia, sia pure con qualche lieve sbavatura, ha prodotto numerose pagine tutt’altro che disprezzabili. L’”allegro animato”, che presenta sostanzialmente una struttura classica (esposizione-sviluppo-ripresa-coda), poggia, oltre che su due temi abbastanza originali, pregevoli, si potrebbe dire gentili, su una serie di motivi secondari ed episodi di collegamento che gli conferiscono tocchi molto speciali. Invece l’”andante-allegretto tranquillo”, dopo un inizio magniloquente, si inoltra in passaggi meditativi, non senza alcuni momenti di poesia o di delicate evanescenze; ma complessivamente l’ispirazione è debole e per lunghi tratti la musica si trascina in modo frammentario. Piace invece il gioioso e spumeggiante “molto allegro”, dove il solista ha mille occasioni di sfoggiare virtuosismo (e qui rammento che Saint-Saens affermò l’idea, non certo sbagliata, che anche il virtuosismo può assurgere a fatto artistico).
Il pianista Bertrand Chamayou ha sfoderato molta potenza, fino a sopraffare, in alcuni punti, l’orchestra. È un ottimo fraseggiatore. Convince nonostante una certa secchezza di tocco. Si è destreggiato con grande abilità nei numerosi grappoli di note e saliscendi di cui la composizione è assai ricca e ha fatto scintille nelle grandi corse finali. Il pubblico lo ha festeggiato con molti applausi. Quanto alle prestazioni dell’orchestra parlerei di ordinaria amministrazione (Franco Abbiati nelle sue recensioni per il “Corriere della sera” utilizzava questi termini per designare una interpretazione diligente e decorosa, ma senza punte di eccellenza).
Altra aria si è respirata invece ascoltando la “Sinfonia fantastica” di Berlioz, che ha occupato il resto della serata. Qui le punte di eccellenza ci sono state, e come. Già la prima apparizione dell’”idée fixe” è risultata un capolavoro interpretativo: fine, sottile, penetrante e, nonostante ciò, già sconvolgente, tale insomma da rendere credibili le successive vicende del protagonista. Una lettura in punta di piedi, leggera e spedita (anche i “rallentando” sono stati appena accennati) ha poi caratterizzato il valzer. Bravissimo il corno inglese nella terza parte, che ha saputo portare la sua triste melodia con sentimento intenso ma anche con grande semplicità. Cupa e terribile la marcia funebre. E veniamo alla quinta parte: è un episodio pericoloso nel senso che, se direttore e orchestra non sanno dominare completamente timbri e volumi, corre il rischio di diventare brutto e fragoroso. Bene, anche in questa circostanza lo Jordan e l’orchestra, grazie a una esemplare compattezza, non hanno mai travalicato musicalità e gusto. Alla fine – e non poteva essere diversamente – delirio d’applausi, ovazioni, pubblico in piedi.
Identità
Sono un ammiratore del Lucerne Festival, che seguo da parecchi decenni, considerandolo la massima manifestazione a livello mondiale per la musica sinfonica. Su un punto però dissento dagli organizzatori, ossia la scelta di un tema, spesso filosofico, per ogni edizione. Come ho già scritto altre volte trovo che la musica non è un’arte adatta a definire o spiegare concetti. Di conseguenza capita molte volte che vengano eseguite composizioni il cui legame con l’argomento proposto è assai labile. L’inconveniente maggiore consiste però nel rischio di deviare, con la scelta e soprattutto con lo sviluppo del tema, verso problemi sociali e politici e di prospettarli secondo le idee attualmente di moda. Quest’anno il tema dell’identità ha prodotto per esempio quanto segue (testo che riporto da un comunicato stampa): “Il Concerto 4 si riallaccia alla scottante tematica sociale sulla crisi dei profughi: l’associazione Zuflucht Kultur darà vita all’’Idomeneo’ di Mozart, una produzione di grande attualità. La recita porterà in scena profughi provenienti da diversi Paesi in un coro in movimento. Al fianco di cantanti solisti, essi verranno coinvolti nell’azione con monologhi nuovi, mentre raccontano, cantano e interpretano la loro storia.” Mozart riposi in pace.
Siamo in Svizzera e mi piacerebbe che, volendo parlare di identità, ci si chini con particolare attenzione su quella della nostra Nazione, che in larga misura è andata persa mentre il resto è fortemente minacciato.
D’altra parte ho apprezzato la risposta data da Riccardo Chailly in una intervista pubblicata sul programma di sala del primo concerto alla domanda seguente: “Che cosa significa ‘identità’ al di là di musica e arte? Che spazio le rimane nell’età della globalizzazione?” Ecco dunque la risposta: “La questione dell’identità è inseparabile dalla globalizzazione. Sono convinto che proprio la globalizzazione – una realtà ineluttabile nel nostro tempo – crea un impulso a proteggere le singole identità, già solo per impedire un appiattimento culturale o un soffocamento dell’individualità. Ad esempio l’Internet è da tanto tempo uno strumento insostituibile però non dovrebbe far passare in secondo piano il contatto umano oppure influire sullo sviluppo della personalità. Il livellamento sarebbe la fine della politica e dell’arte.” (Traduzione dal tedesco)
Carlo Rezzonico
« Corea del Nord, Parigi: “Missili di Kim Jong-un potrebbero raggiungere l’Europa Elezioni Germania, Merkel: “Sul governo troveremo una soluzione”. Schulz: “Spd all’opposizione”. »