“Il Corsaro” al Festival Verdi di Parma
Spazio musicale
Come sempre , quando si parla di opere poco conosciute come “Il Corsaro” di Verdi, conviene cominciare la recensione dando un riassunto del libretto. Medora, una donna dolce, buona e innamorata, che vive con i corsari (!), e Gulnara, che si trova alla corte di un pascià ed è ardentemente agognata da costui, amano entrambe Corrado, un corsaro. Questi abbandona Medora, pur avendo stima ed affetto per lei, e si reca precipitosamente con i suoi uomini alla corte del pascià per impossessarsi di Gulnara. Viene fatto prigioniero ma la donna trova il modo di fuggire con lui. Vanno al covo dei corsari. Qui Medora, pensando che Corrado abbia perso la vita, si è avvelenata poco prima del loro arrivo ma può ancora scambiare alcune parole con l’uomo amato. Non appena è spirata Corrado in preda alla disperazione si getta nel mare.
La vicenda offre aspetti interessanti ma tanto il libretto, di cui è autore Francesco Maria Piave, quanto la musica ne approfittano solo parzialmente. Il protagonista ha affetto per entrambe le donne (che si incontrano soltanto quando una di loro è in punto di morte, scoprendo tardivamente di avere una rivale) ma manca una grande scena in cui i contrasti nel suo animo vengono messi a fuoco, caratterizzandolo inconfondibilmente. Non adempiono certo questa funzione i pochi accenni di Corrado prigioniero all’”infelice Medora” né la breve confessione a Gulnara, prima della fuga, che esiste un altro amore. Nasce insomma l’impressione di una certa superficialità del personaggio, incapace di prendere decisioni, tranne quella, che in fondo è una viltà, del suicidio.
Sul piano musicale, per trovare momenti convincenti, bisogna aspettare fino al secondo quadro dell’ultimo atto. Nella scena in cui Gulnara cerca di indurre il reticente Corrado a fuggire con lei e, di fronte al suo rifiuto di uccidere il Pascià, provvede lei stessa a pugnalarlo, mentre scoppia un uragano, dove la furia degli elementi diventa lo specchio di quanto avviene nell’animo dei personaggi, il talento del compositore appare, anche se molto meno intensamente che in tante opere anteriori e posteriori al “Corsaro”, e carica di forte drammaticità gli avvenimenti. Abbastanza notevole è poi il finale dove, sia pure solo in un brevissimo momento, balena come per incanto un passaggio degno del Verdi migliore: è quando Medora, indotta dal silenzio dei corsari a credere morto l’uomo del suo cuore, esclama “il mio Corrado non è più” e il canto improvvisamente attacca un acuto ma subito ne scende, accasciandosi, come se la forza morale della donna venisse meno.
“Il Corsaro” è stato rappresentato a Parma come seconda opera del Festival Verdi in un allestimento degno di rispetto. Purtroppo il tenore che ha interpretato Corrado è stato colpito, la sera della prima, da indisposizione; si è difeso con buona volontà e, date le circostanze, con risultati accettabili. Come Seid, il pascià, ha cantato Ivan Inverardi: dispone di mezzi eccezionalmente doviziosi ma dovrebbe tenerli maggiormente sotto controllo. La soprano Silvia Della Benetta, che ha sostenuto la parte di Gulnara, possiede una voce carente nel volume e nel timbro, ma è una cantante intelligente e con l’intelligenza supplisce parzialmente alla scarsità dei doni naturali; ha dato in ogni caso una buona interpretazione. Molto applaudita è stata Jessica Nuccio, l’altra soprano: ha voce purissima, dolce e flessibile, esattamente quella occorrente per il delicato e sensibile personaggio di Medora, questa specie di angelo stranamente calato in una banda di corsari. Molti elogi vanno fatti al direttore Francesco Ivan Ciampa, impegnato nel difficile compito di mettere in valore i non molti passaggi veramente belli della partitura (ammirevoli sono state le battute introduttive alla sortita di Medora, misteriose e trepidanti, come pure quelle con cui si apre la scena del tenore nel terzo atto) e d’altra parte di attenuarne i difetti (ha reso passabile perfino la cabaletta di Gulnara nel secondo atto, che sembra più espressione di spensierata gioia che irritazione per l’atteggiamento del pascià nei suoi confronti). Buoni i comprimari e impeccabile, come sempre, il Coro del Teatro Regio, istruito da Martino Faggiani. La regia di Lamberto Puggelli, ripresa da Grazia Pulvirenti Puggelli, ha dato il giusto risalto agli avvenimenti; è piaciuto anche l’impianto scenico, dovuto a Marco Capuana, fatto di elementi rievocanti il mare e tendaggi, efficacemente manovrati e illuminati per creare l’atmosfera appropriata ad ogni scena.
Brahms al LAC
Il 22 ottobre, al LAC, Markus Poschner e l’Orchestra della Svizzera italiana, con la partecipazione della violinista Alexandra Soumm e del violoncellista Jean-Guihen Queyras, hanno proseguito la “rilettura” delle grandi composizioni sinfoniche di Brahms.
Il concerto per violino, violoncello e orchestra, che ha aperto la serata, non ha un buon nome. Eppure, a parte il primo tempo, alquanto farraginoso e inconcludente, il resto della composizione si mantiene su un livello più che dignitoso. Piace l’”andante”, caratterizzato dai movimenti ad arpeggio in zona grave dei due solisti, come se volesse descrivere un uomo che fa le sue riflessioni vagabondando nella notte, laddove la musica rasenta il grottesco, però senza cadervi. Piace anche il “vivace non troppo”, pur allineando quattro idee molto contrastanti: inquieta la prima, pacata la seconda, trionfale la terza, stanca e sospirosa la quarta. Assai belle sono state le prestazioni dei due solisti, anche se la Soumm si è messa in evidenza come interprete decisa, energica ed esuberante mentre il Queyras ha seguito una linea riflessiva e controllata.
Dopo la pausa si è ascoltata la terza sinfonia, un capolavoro che ricorre spesso nei programmi dei concerti e del quale non sono mancate né mancheranno le occasioni di parlare. Questa volta, per non ripetere continuamente le medesime cose, riporto il giudizio entusiastico di Clara Schumann in una lettera a Brahms del 1884 (citata in Francesco Bussi, La musica strumentale di Johannes Brahms, Nuova ERI): “Non so dove queste righe ti raggiungeranno, ma devo inviartele perché il mio cuore straripa. Grazie alla tua mirabile sinfonia ho passato molte ore piacevoli…..Che lavoro! C’è ovunque una tale armonia, ogni movimento è come una limpida fontana, un battito di cuore, un tesoro. Dal principio alla fine si è avvinti dall’incanto segreto della vita delle foreste; non so dirti quale movimento prediligo.” E avanti di questo passo. A Lugano il Porschner si è attenuto ai concetti interpretativi adottati nel primo concerto, sui quali ho diffusamente riferito sul “Paese” del 23 ottobre. Ne sono derivati, per così dire, alcuni guadagni e alcune perdite. In merito a queste menziono l’ampio, appassionato, stupendo gesto musicale dei violini che appare immediatamente, come tema principale, dopo i tre accordi iniziali dei fiati: qui un maggior spessore di suono avrebbe giovato. Sul versante dei guadagni segnalerei tutto il secondo e tutto il terzo tempo, dove la chiarezza della lettura e la perfetta aderenza ai valori espressivi hanno dimostrato che sul podio c’era un direttore di alta classe e, ai suoi ordini, un’orchestra degna dei più caldi elogi.
Sala affollatissima, grandi applausi.
Carlo Rezzonico
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