“Il Campiello” e “La Traviata” nei teatri veneziani
Spazio musicale
Vissuto in un periodo di bufere musicali (Wagner, il verismo e le scuole d’avanguardia), Ermanno Wolf-Ferrari rimase imperterrito e non esitò a seguire vie proprie, incurante di quanto si agitava attorno a lui. Questa almeno è l’impressione suscitata dalle sue opere meglio riuscite. Leggerezza, delicatezza, spontaneità e una semplicità che non ha paura di confessarsi nè cerca di nascondersi dietro intellettualismi o pretenziosità caratterizzano contenuti e forme della sua musica. La comicità si tinge spesso di malinconia e mantiene un certo garbo anche quando scoppiano baruffe furibonde. L’ironia è sempre bonaria. Il compositore si serve di un recitativo flessibile e frastagliato che non di rado lascia il posto ad aperture melodiche distese, dalle quali il sentimento emerge senza reticenze. Di regola il tessuto orchestrale rimane discreto e si accontenta di pochi tocchi, ma è colorito e non privo di soluzioni armoniche moderne; serve egregiamente a caratterizzare i personaggi e definire le situazioni. C’è da ultimo una qualità che manca a gran parte dei compositori del Novecento e dei primi anni del nostro secolo, ossia il riguardo e l’affabilità nei confronti degli ascoltatori, il desiderio di procurar loro soddisfazione senza esigere sforzi intellettuali, l’intento costante di dar loro molto usando mezzi sobri. Certamente Wolf-Ferrari non è un genio ma raggiunse ugualmente risultati artistici non trascurabili e seppe ritagliarsi un posto indipendente e solitario nella storia della musica.
Le qualità suddette si ritrovano interamente nel “Campiello”, una delle sue ultime opere, che porta in scena gli amori, le gelosie, le vanità e i litigi furiosi (seguiti immediatamente da rappacificazioni e baci) tra gli abitanti di una piazzetta veneziana. Ci sono tante piccole vicende che si intrecciano componendo un quadro vivacissimo di vita popolare. Ma non mancano spunti toccanti, come l’addio alla città da parte della ragazza che, con le sue vanità e le sue affettazioni, sembrava la meno legata al campiello, tuttavia al momento del distacco si commuove e sulle note soavissime del motivo principale dell’opera scopre, assieme a tutti gli altri, che il campiello magari è brutto, però “no ze bel quel ch’è bel, ma quel che piaze”.
“Il Campiello” è stato rappresentato recentemente al Teatro Malibran di Venezia nell’allestimento del Teatro Sociale di Rovigo. L’ho visto il pomeriggio del 7 marzo. Purtroppo dal posto che mi è stato assegnato era impossibile farsi una opinione precisa della qualità musicale. La compagnia di canto mi è parsa complessivamente buona e ben preparata. Non posso dire lo stesso del direttore Stefano Romani, che dello spartito ha dato una lettura accurata ma povera di colore e accenti. Bella e appropriata la scena, piacevole la regia di Paolo Trevisi.
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La sera prima, alla “Fenice”, ho assistito a una splendida esecuzione della “Traviata”. Irina Lungu ha superato senza problemi tutte le difficoltà di una parte tra le più esigenti per una soprano. Possiede voce larga, vibrante, ricca di timbro ed estesissima (l’acuto alla fine del primo atto è stato limpido, perfetto nell’intonazione e tenuto a lungo). Ha partecipato pienamente alle vicissitudini del personaggio e gli ha conferito accenti commoventi. È stata anche capace di recitare con buona dizione il passaggio che comincia con le parole “Teneste la promessa…..” (però al termine avrei preferito un “È tardi!….” sospirato e non gridato). Sicuramente la Lungu è una delle Violette più convincenti di cui dispone attualmente il teatro d’opera. Non alla sua altezza, ma tutto sommato accettabile, è stato il tenore Shalva Mukeria mentre un’ottima prestazione ha fornito il baritono Vladimir Stoyanov. Di Diego Matheuz, che avevo già avuto occasione di ammirare in un “Rigoletto” di alcuni anni fa, posso confermare quanto scrissi allora. È un direttore sicuro nella tecnica, nel gusto e nell’interpretazione. Il che si vede da come imposta i grandi momenti dell’opera, ma anche dai risultati che sa ottenere lavorando su elementi apparentemente poco importanti. Così, per fare un esempio, sotto la sua direzione i brevi tocchi orchestrali che nei recitativi riempiono il vuoto tra una frase e l’altra del cantante e servono a tenerlo in tono, diventano sorprendentemente fonti attive e rilevanti di espressione. Un altro punto degno di rilievo è l’equilibrio irreprensibile tra palcoscenico e orchestra, un aspetto di importanza fondamentale in ogni esecuzione di melodrammi che voglia rispettare le caratteristiche del genere. Non dimentichiamo l’ottima prestazione dell’Orchestra Teatro Fenice (meraviglioso, nel preludio al terzo atto, è stato il suono dei violini: purissimo, dolcissimo, esile e luminoso come un filo di seta) e del coro, istruito da Claudio Marino Moretti.
Per la parte visiva dello spettacolo si è ripresa la regia di Robert Carsen, però parzialmente depurata di alcune stranezze, come la mania di Alfredo per le fotografie (era sempre meglio di un Alfredo messo in cucina a tirare la pasta, ma lo stesso…..). Il trasferimento dell’epoca ai tempi moderni ha disturbato, ma non oltre un certo limite. Dissento notevolmente solo per alcune scene. In una concezione di teatro nel teatro, che probabilmente piace a Carsen, il quale ne ha fatto uso in diverse regie, zingarelle e mattadori si sono esibiti su un palcoscenico allestito nella sala in cui Flora dà il suo ricevimento. Ho trovato inadeguata, in “Alfredo, Alfredo, di questo core”, la collocazione di Violetta su quel palcoscenico, ritta e sicura come se stesse cantando una bell’aria per il piacere degli invitati alla festa. Anche l’irruzione della folla rumoreggiante per il carnevale nella camera della protagonista ammalata, forse nell’intento di presentarla come una visione della donna in un momento di vaneggiamento, mi è parsa inopportuna in quanto ha deturpato quell’ambiente di calda e morbida intimità che Verdi creò genialmente nell’ultimo atto (ci sono, è vero, i canti del carnevale, ma come eco di un fatto estraneo, affidato a un coro e a una banda fuori scena). Fatte queste riserve, per il resto si può dire che la regia ha mosso i personaggi con mano felice e forte acume interpretativo.
La sera che ero presente successo caloroso per tutti, trionfale per la Lungu.
Concerti dell’Auditorio
“Bachianas brasileiras” n. 5 per soprano e orchestra di violoncelli di Villa-Lobos ha costituito il numero più speciale del programma svolto nel concerto dell’Auditorio del 14 marzo. Sotto il canto che si espande in ampie frasi gli otto violoncelli tessono un accompagnamento discreto, con largo uso di pizzicati, a suo modo vagamente bachiano. Sandra Pastrana, alla quale era affidata la parte vocale, possiede una voce piuttosto aspra ma penetrante e in grado di produrre una notevole varietà di colori; ha cantato con viva e struggente partecipazione. Fuori programma si è poi esibita in “O mio babbino caro” dal “Gianni Schicchi” di Puccini: il suo tipo di voce non è il più adatto per l’implorazione di una giovanissima innamorata al babbino caro, tuttavia va riconosciuto che vi ha profuso molto impegno e molta espressione.
L’insolita composizione di Villa-Lobos è stata seguita da due capolavori tra i più amati dal pubblico. Roman Brogli-Sacher dal podio (in sostituzione di Alain Lombard) e la sezione archi dell’Orchestra della Svizzera italiana hanno dato una esecuzione limpida, trasparente e appassionata della Serenata per orchestra d’archi op. 48 di Cajkovskij. Ha fatto seguito, nella seconda parte della serata, il Sogno di una notte di mezza estate op. 61 di Mendelssohn. Stupisce in questo lavoro la perfetta unità stilistica se si pensa che tra la composizione dell’ouverture e quella degli altri tre pezzi trascorsero sedici anni. Dappertutto è presente una sottile, pungente e affascinante magia. L’interpretazione data dal Brogli-Sacher e dall’orchestra ha aderito a questo particolarissimo spirito della musica. Deliziosi sono stati i suggestivi accordi “lunari” con cui inizia l’ouverture; leggerissimi i veloci ricami, affidati ai violini, della danza degli elfi; splendidamente festosa, saltando in fondo, la marcia nuziale.
Molti applausi.
Carlo Rezzonico
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