Felice stagione di balletto alla Scala
Spazio musicale
Nel campo del balletto la Scala sta attraversando un periodo particolarmente favorevole. Come ho già segnalato in altre occasioni, la stagione in corso porta a Milano numerosi interpreti al più alto livello internazionale. Nomi come quelli di Ivan Vasiliev, Maria Eichwald, Natalia Osipova, Polina Semionova e Friedemann Vogel conferiscono grande lustro al cartellone. Ma a parte il valore e la fama degli ospiti c’è da segnalare un netto progresso nelle prestazioni della compagnia locale. Il che è rallegrante, sia perchè conferma la qualità della direzione e della scuola scaligere, sia perchè consente di allestire spettacoli importanti anche con le sole forze disponibili sul posto.
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Tra dicembre e gennaio il teatro milanese ha offerto una serata comprendente esclusivamente balletti di Ratmansky: iniziativa lodevole, visto che il coreografo russo si è affermato come una delle personalità più interessanti del nostro tempo. I tre numeri dello spettacolo costituivano una ripresa, una prima per la Scala e una prima assoluta. Ovviamente, scrivendo una recensione, si dà la precedenza al lavoro in prima assoluta. Forse perchè ha creato per un teatro famosissimo nell’ambito del melodramma il Ratmansky ha voluto offrire una specie di omaggio all’opera. La scelta è caduta sul periodo barocco. Leonid Desyatnikov ha composto la musica su una selezione di testi del Metastasio, facendo rivivere in chiave moderna lo stile dell’epoca. Solitamente operazioni del genere ironizzano sul buon tempo antico e sconfinano facilmente nella parodia. Nel caso che ci occupa il sospetto veniva accreditato dal fatto che, a conclusione del balletto, si cita un passaggio delle “Memorie” del Goldoni nel quale sono esposte le costrizioni, per noi assurde, cui doveva sottostare il librettista. Invece niente satira e niente grottesco. Già il Desyatnikov, scrivendo la partitura musicale, ha assunto toni seri e trovato accenti di autentica umanità. Dal canto suo il Ratmansky ha saputo riprodurre coreograficamente, in modo convincente, la gamma di sentimenti espressi dai testi (aria di guerra, aria patetica, aria di sdegno e così via). Se lo spettacolo è piaciuto il merito va ascritto anche alla superba esibizione della compagnia scaligera: tanto i solisti quanto il corpo di ballo si sono fatti grande onore.
La novità per la Scala era costituita da “Russian Seasons”. Anche qui la partitura musicale è dovuta al Desyatnikov, il quale ha scritto quattro concerti, uno per stagione, nei quali sono inserite canzoni russe. I rapporti fra i testi da un lato e la musica e la coreografia dall’altro mi sono sembrati labili, per cui nel balletto ho apprezzato soprattutto la danza in sè. Di nuovo vanno elogiate sia la fantasia del Ratmansky, sia l’ottima qualità dell’esecuzione. Tutti i dodici solisti hanno danzato impeccabilmente: menziono a titolo di esempio Marta Romagna, splendida soprattutto nella parte finale, dove la sua danza flessuosa e morbida ha prodotto nel migliore dei modi l’atmosfera di spiritualità che nasce quando il balletto si avvia verso la conclusione.
Del Concerto DSCH, opportunamente ripreso, scrissi sul “Paese” quando venne rappresentato nella stagione 2011/2012. Ha deliziato nuovamente il pubblico scaligero per l’energia che irrompe nei tempi estremi e più ancora per i pregi di quello centrale, dominato da un bellissimo passo a due. In questo la coreografia trasferisce perfettamente sul piano visivo i contenuti della musica, dando vita a un capolavoro in cui il lirismo non sfocia nella passione e nella sensualità ma si trasferisce su un piano superiore di soffusa e incantevole delicatezza. Nel Concerto DSCH, in una danza libera dalle parole, brilla, più che negli altri due numeri in programma, l’estro del coreografo.
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A metà gennaio la Scala ha fatto rivivere per una volta la tradizione settecentesca e ottocentesca di abbinare opera e balletto; solo che a quei tempi il balletto o, come si diceva, il ballo seguiva l’opera; invece lo spettacolo andato in scena recentemente ha messo due brevissimi balletti all’inizio e l’opera dopo la pausa. Si è cominciato con “Le spectre de la rose”. Ivan Vasiliev, nei panni del protagonista, ha sfoggiato la sua straordinaria capacità nei salti, che sono notevoli non solo per l’elevazione, ma anche per la leggerezza, come se il ballerino riuscisse ad escludere la forza di gravità, e per la morbidezza degli atterraggi. La sua bravura si è manifestata anche nei famosi movimenti delle braccia cui tanto teneva Fokin, il coreografo. Detto questo penso che il Vasiliev potrà ulteriormente approfondire e migliorare la sua interpretazione del personaggio. Con lui ha danzato correttamente Lusymay Di Stefano. Poi è venuta “La rose malade” di Petit, in cui Maria Eichwald ha prodotto una danza tenue, aerea e immateriale, indubbiamente di alta classe (con, tra l’altro, alcune serie di punte rapidissime, meravigliose, dove pareva che la ballerina volasse rasente al suolo). Meno ha convinto, nella parte maschile, Igor Yebra. Daniel Harding, alla testa dell’Orchestra della Scala, ha diretto la parte musicale, che era l’adagetto della quinta sinfonia di Mahler (ho scritto “adagetto”, anche se dappertutto sta scritto “adagietto”, poiché trovo che la fedeltà all’originale non deve spingersi fino ad avallare un fastidioso errore di lingua). È stata una esecuzione notevole, che ha assottigliato i “pianissimo” fino al limite dell’udibilità e suscitato una atmosfera rarefatta di stupore e incanto, in un clima di raffinatissima sensibilità.
E ora qualche parola sull’opera. La partitura di “Cavalleria rusticana” crea un ampio quadro pasquale, sia descrivendo delicatamente il risveglio primaverile della natura, dove la musica sembra emanare colori e profumi, sia portando motivi festosi di largo respiro; così il contrasto con la passionalità, le violenze e il fatto di sangue rende la tragedia ancora più cruda e raccapricciante. E invece che cosa si è visto? Un fondale nero dall’inizio alla fine, il coro per metà opera seduto e guardante in avanti come se fosse un secondo pubblico e per l’altra metà di spalla per seguire la messa celebrata sul fondo, nella striscia tra coro e ribalta gli avvenimenti in una forma pressoché semiscenica. Insomma: un fosco oratorio, o quasi. Lo Harding ha dato una lettura molto analitica dello spartito, moderato tempi e volumi e lisciato le sonorità, badando più all’introspezione psicologica che all’esuberanza e al carattere sanguigno dell’opera. Accettata questa impostazione, a mio parere però assai discutibile, gli esiti sono stati di alto valore. Ludmyla Monastyrska (Santuzza) possiede una voce forte e limpida, però l’eccesso di vibrato la rende oscillante. Jorge De Leon (Turiddu) ha l’incisività e lo squillo di un vero tenore lirico spinto. Vitaliy Bilyy si è fatto notare con emissioni robuste e sicure.
Concerti dell’Auditorio
I Concerti dell’Auditorio si distinguono non soltanto per il fatto che seguono un tema ma anche per la scelta del tema stesso, sempre tale da destare l’interesse e perfino stuzzicare la curiosità del pubblico. Quest’anno si presentano “stravaganze strumentali”, ossia strumenti usati raramente nei concerti tradizionali. La prima serata ha fatto conoscere il pianoforte con pedaliera. In realtà si tratta di due pianoforti sovrapposti, uno funzionante normalmente, l’altro messo in attività da pedali simili a quelli dell’organo. Ci troviamo in presenza di una pura bizzarria, una “stravaganza” appunto, oppure di uno strumento in grado di offrire al compositore effetti non solo inconsueti, ma anche utili a fini artistici? Darei la preferenza alla seconda possibilità. Il pianoforte con la pedaliera amplia le risorse del pianoforte normale in diverse direzioni: consente di aggiungere una colorazione scura, si presta all’attuazione di contrasti, accresce le possibilità contrappuntistiche e permette di creare dialoghi tra interlocutori ben distinti. Di tutto questo però Gounod, del quale sono stati eseguiti un Concerto e le Danze rumene per pianoforte-pédalier e orchestra, fa un uso relativamente scarso. Insiste invece sullo scambio di brevi frammenti tra un pianoforte e l’altro. L’effetto è bello, ma ripetuto troppo. Solista è stato Roberto Prosseda, un interprete preparato e sensibile, che ha riscosso lunghi e meritati applausi.
Andrea Battistoni dal podio e l’Orchestra della Svizzera italiana, dopo aver accompagnato degnamente il Prosseda nelle composizioni di Gounod, hanno poi eseguito le due suites dalle musiche di scena per “Peer Gynt” di Griegz. Battistoni ha un temperamento focoso, i suoi gesti sono estremamente marcati, talvolta addirittura rabbiosi. Ma ha saputo ottenere risultati assai validi non solo nei passaggi energici e di grande sfoggio coloristico, ma anche in quelli di tristezza e raccoglimento, come nel numero “La morte di Aase”.
Auditorio gremito e molti convinti applausi.
Carlo Rezzonico