Due rarità e la seconda sinfonia di Bruckner al LAC

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Immagine che contiene Strumento musicale, musica classica, orchestra, musica

Descrizione generata automaticamenteIl concerto del 9 novembre nell’ambito della stagione OSI al LAC ha fatto conoscere due rarità. La prima è stata una composizione chiamata «Anahit» per violino e diciotto strumenti di Giacinto Scelsi, compositore italiano nato nel 1905 e deceduto nel 1988. Musicista poliedrico e irrequieto, quando si scorre una sua biografia si incontrano numerosissime tendenze e personalità del tempo in cui visse, ad esempio Schönberg (Scelsi fu il primo seguace della dodecafonia in Italia), Skrjabin, elementi neoclassici, elementi neobarocchi, compressione tematica e brevità, misticismo, poesia e filosofia orientali, microintervalli, sintesi fra Oriente e Occidente. Nella composizione presentata a Lugano Scelsi procede a suoni lunghi, che creano una atmosfera diradata e misteriosa, sulla quale il violino solista esegue brevi figurazioni rapide e nervose. Ho apprezzato soprattutto la scelta molto raffinata dei timbri. Inappuntabili sono state le prestazioni del Poschner, dei diciotto strumentisti e di Robert Kowalski, questa volta non violino di spalla dell’orchestra ma solista.

Ha fatto seguito una Fantasia scozzese per viola e orchestra op. 47 di Walter Braunfels. Questo musicista, nato a Francoforte sul Meno nel 1882 e vissuto in un ambiente di artisti (tra l’altro la madre, dalla quale ricevette i primi insegnamenti musicali, era amica di Clara Schumann e Franz Liszt), scrisse opere, composizioni sinfoniche e musica da camera. Alcuni suoi lavori conseguirono un successo notevole ma il regime nazista gli impose di rinunciare a ogni attività musicale. Morì nel 1954 e fu dimenticato. Nella fantasia scozzese op. 47 il Braunfels affrontò il difficile campo della viola come solista. Questo strumento ha risorse scarse in quanto non possiede la luminosità e l’agilità del violino e neppure la pienezza e l’intensità sonora del violoncello. Il compositore ha cercato di rendere attraente il suo lavoro in vari modi, ad esempio, nella parte iniziale, assegnando interventi incisivi, capricciosi, a volte quasi isterici, al solista su un tessuto orchestrale in zona bassa e a tinte scure. Ma se questo numero del programma è risultato nonostante i limiti anzidetti un avvenimento importante bisogna essere grati a Nils Mönkemeyer, il quale ha messo in luce un dominio assoluto dello strumento e una straordinaria capacità di trarne tutti gli effetti possibili.

Nella seconda parte della serata è stata eseguita la seconda sinfonia di Bruckner. I nemici del compositore austriaco dicevano che era un dilettante dotato, il quale compose nove volte di fila la stessa sinfonia. Con un pizzico di cattiveria e imprecisione in più si potrebbe dire che nella seconda sinfonia compose quattro volte lo stesso movimento.  Fatto naturalmente lo sconto d’obbligo come a tutte le esagerazioni resta il fatto che in questo lavoro non mancano aspetti che generano monotonia. Il discorso può cominciare già dalla scelta dei tempi: «moderato» per il primo movimento, «adagio, feierlich etwas bewegt», quindi non molto lontano dal precedente, per il secondo movimento, il tutto avente una durata complessiva di circa trentacinque minuti. Pure il finale presenta momenti di stanchezza. Poi, come avviene anche nelle altre sinfonie, sia pure meno frequentemente, Bruckner trova spunti validi e interessanti, tuttavia la loro carica si esaurisce subito, come se l’ispirazione venisse a mancare. C’è parecchia prolissità. Naturalmente un giudizio su Bruckner in generale e sulla seconda sinfonia in particolare non può finire qui. A fronte dei difetti esistono pregi non trascurabili. Per esempio, è deliziosa la finezza del passaggio che, nel primo movimento, segue l’esposizione dei tre temi. Felice in vari episodi la scelta dei colori. Un gioiello è reputato da diversi critici, con una certa benevolenza, lo scherzo, dove al tema fondamentale di carattere folcloristico si oppone un trio con preziose finezze strumentali. Ancora una volta il Poschner e l’Orchestra della Svizzera italiana si sono distinti con prestazioni splendide. Certamente da una partitura così non sarebbe stato possibile ricavare di più.

Il pubblico, assai numeroso (la sala non era esaurita, ma pur sempre ben occupata e questo, tenuto conto che il programma non aveva carattere popolare, va considerato un successo) ha festeggiato vivamente il Poschner, il Kowalski, il Mönkemeyer e il complesso.

Opere adattate per teatri piccoli

Ci si può domandare se sia opportuno rielaborare partiture musicali o ridurne l’organico allo scopo di poterle utilizzare in auditori o teatri piccoli.

Talvolta i problemi derivanti dalla dimensione delle sale vengono risolti con accorgimenti che permettono di evitare cambiamenti o ritocchi alle versioni originali. Mi capitò di assistere a una rappresentazione di «Elektra» di Richard Strauss in un teatro avente una buca così stretta che era impensabile di potervi sistemare tutti gli strumentisti richiesti. Si rimediò collocando l’orchestra nella parte posteriore del palcoscenico e mettendole davanti una specie di siparietto che la nascondeva ma non ostacolava in modo significativo l’ascolto. Inoltre, si coprì la buca, prolungando in tal modo il palcoscenico nella direzione del pubblico. La vicinanza dei cantanti permise agli spettatori di cogliere meglio gli aspetti drammatici della vicenda e di udire più intensamente le loro voci, che non vennero mai sopraffatte, come talvolta succede nelle opere di Richard Strauss, dall’orchestra. Tutto sommato questo singolare esperimento funzionò bene.

Parecchi anni fa a San Gallo in un’altra opera di Richard Strauss, «Il cavaliere della rosa», si preferì adottare una partitura ridotta ma, fatto importante, autorizzata dal compositore. La diffidenza con cui entrai in teatro scomparve non appena mi accorsi che, anche grazie alla bravura degli strumentisti, l’esecuzione risultava molto godibile e raramente faceva rimpiangere l’originale. Non solo, ma certi particolari solitamente sommersi dal flusso imponente di musica potevano essere percepiti o apprezzati meglio. In fondo lo spirito del «Cavaliere della rosa» è cameristico, per cui l’ampiezza dell’organico prescritto (16 primi violini, 16 secondi violini, 12 viole, dieci violoncelli, 8 contrabbassi, flauti, oboi, clarinetti, clarinetti bassi, corno inglese, fagotti, 4 corni, 3 trombe, 2 tromboni, tuba bassa, una dozzina di strumenti per la percussione, celesta e due arpe!) può talvolta risultare ingombrante. L’edizione ascoltata quella volta a San Gallo presentò il vantaggio di ricuperare a suo modo un certo spirito cameristico.

Un altro esperimento interessante è stato fatto per il «Falstaff» nel quadro del Festival Verdi dell’anno in corso. Come sede si è scelto il minuscolo teatro di Busseto e per la parte strumentale si è fatto ricorso a un complesso comprendente una quindicina di musicisti. Innanzitutto desidero però sgomberare il dubbio che l’operazione abbia avuto uno scopo puramente economico, quello di limitare i costi. Si è voluto invece proiettare l’ultima opera verdiana in una prospettiva nuova e ripensare i suoi valori. Direi che Alessandro Palumbo, autore dell’arrangiamento e poi concertatore e direttore, sia riuscito nell’intento. Mi soffermo su alcuni punti. In primo luogo, osservo che, presentando l’opera in una dimensione cameristica, occorreva anche soddisfare le esigenze di questo genere e del pubblico raffinato che solitamente vi si accosta: cura assidua dedicata a ogni particolare, cesellature precisissime e svolgimento di un dialogo sciolto, quasi direi un dialogo da confidenziale conversazione, tra gli strumentisti. A Busseto questa condizione è stata largamente soddisfatta. In secondo luogo, si è data la giusta evidenza all’ironia che serpeggia in tanti punti della partitura, ricordandoci che Verdi si rivela nel «Falstaff» un maestro in questo campo, non meno di un Ariosto o di un Rossini. In terzo luogo, ho ammirato la capacità del direttore e dei suoi strumentisti di ottenere con mezzi così sobri prestazioni compatte e corpose in tutti i momenti in cui ciò occorreva, come durante l’incontro tra il protagonista e Mr Ford nel secondo atto. In quarto luogo, e da ultimo, approvo che tanto sul piano musicale quanto su quello registico si siano evitate quelle caricature eccessive che purtroppo svalutano tante edizioni dell’opera. Anche al personaggio eponimo è stata restituita una certa dignità; per l’uscita con Mr Ford è apparso, non ridicolmente agghindato, ma addirittura in frac.

Cantanti validi e quasi tutti adeguati. Menziono solo, scusandomi con gli altri, Elia Fabbian (Falstaff) e Andrea Borghini (Ford).

Carlo Rezzonico

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