Concerti dell’Auditorio nella fase finale
Spazio musicale
Il 21 marzo la stravaganza non consisteva nella presenza di qualche strumento speciale ma nella riunione di quattro strumenti aventi caratteristiche assai diverse, con funzioni solistiche, nella medesima composizione. È stata eseguita la Sinfonia concertante per mandolino, tromba, contrabbasso, fortepiano e orchestra di Leopold Antonin Kozeluch. Questi strumenti non si fondono in una specie di concertino, cosa del resto impensabile considerate le loro diversità di timbro e volume, ma assumono uno dopo l’altro, a turno, il ruolo di solista. Tentativi di farli dialogare, tra loro o con l’orchestra, non ne ho notati. La possibilità di utilizzare il loro strambo accostamento a scopo grottesco non è stata neppure lontanamente presa in considerazione dal compositore. Nulla ha smosso il Kozeluch dalla pura e semplice ricerca, con questi solisti in fila indiana, di una certa piacevolezza. Gli esiti sono stati indubbiamente garbati ed eleganti, ma con pochissima sostanza artistica. Assai bravi Duilio Galfetti (mandolino), Markus Würsch (tromba), Enrico Fagone (contrabbasso) e Pierre Goy (fortepiano). Sul podio, a dirigere l’Orchestra della Svizzera italiana, c’era Damian Iorio.
La serata è stata aperta da una esecuzione così così dell’ouverture della “Clemenza di Tito” di Mozart mentre nella seconda parte si è ascoltata la Sinfonia n. 38 KV 504 “Praga”, sempre di Mozart. Pregevole l’esecuzione di questa, ridondante di energia nei tempi estremi, percorsa da ombre e mistero nello stupendo tempo centrale.
Molti applausi per tutti gli interpreti.
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Il concerto del 28 marzo ha offerto nella prima parte la Sinfonia n. 100 “Militare” di Haydn, ben eseguita dall’Orchestra della Svizzera italiana diretta da Howard Griffith. Nella seconda parte, dopo la “Marche pour la cérémonie des Turques” da “Le Bourgeois gentilhomme” di Lully e dopo una mediocre “Turcaria” di Johann Joseph Fux, il concerto si è addentrato in composizioni assai lontane dalla nostra sensibilità. Sul loro valore artistico non mi sento di esprimere una opinione. Certamente si sono potuti godere timbri e ritmi interessanti. Estremo è il grado di raffinatezza di questa musica. Le esecuzioni, in cui all’Orchestra della Svizzera italiana si sono affiancati quattro bravissimi musicisti dell’Istanbul Oriental Ensemble, con Burhan Ocal alle percussioni, mi sono parse eccellenti. Il pubblico, come al solito assai numeroso, ha tributato molti consensi a tutti gli interpreti.
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La chitarra è stata al centro del concerto del 4 aprile. La serata ha destato un vivo interesse, sia perchè lo strumento è molto conosciuto e praticato (non costituiva una vera stravaganza), sia perchè a suonarlo è venuto Milos Karadaglich, preceduto da una fama notevole nonostante l’età relativamente giovane. In programma c’era il Concerto de Aranjuez per chitarra e orchestra di Joaquin Rodrigo. Anche la chitarra, come altri strumenti passati in rassegna nei Concerti dell’Auditorio, pone il problema dei rapporti di volume con l’orchestra. Il compositore fa opportunamente tacere gli altri strumenti, o ne riduce l’attività a un minimo, quando suona il solista. In tal modo evita che questo rimanga soffocato o risulti difficilmente udibile. Si crea un’alternanza di passaggi assai differenziati nel volume e nel carattere, laddove la chitarra, quando riprende il suo discorso dopo un intervento orchestrale, manda suoni che sembrano venire da un altro mondo. Il Karadaglic ha dato della sua parte una lettura compassata, per non dire fredda. È stato in ogni caso vivamente applaudito.
Se la chitarra ha attirato molta attenzione, il concerto si è distinto anche per l’ottima prestazione del direttore Antonello Manacorda e dell’Orchestra della Svizzera italiana. All’inizio abbiamo ascoltato una versione effervescente e colorita, ma senza esagerazioni nè forzature, di “El sombrero de tres picos”, suite numero 1, di De Falla. Dopo la pausa è stata eseguita la Sinfonia in do maggiore di Bizet; l’autore l’ha composta a diciassette anni ma ha saputo già rivelare doti di grande musicista. Eseguita poi con l’impegno e l’intelligenza profusi dal Manacorda e dall’orchestra, la sinfonia è parsa quasi un piccolo capolavoro: scattante l’”allegro”, affascinante l’”andante”, con molte volute melodiche intensamente espressive ma anche bellissime sfumature ed evanescenze, delizioso lo scherzo e luminoso il finale. Applausi convintissimi.
“Les Pêcheurs de perles” a Parma
Di Bizet la maggior parte di coloro che frequentano i teatri d’opera hanno visto solo “Carmen”. Ben venga dunque la rappresentazione a Parma, nel quadro della stagione 2014, dei “Pescatori di perle”. Questo in attesa che qualche teatro si prenda l’impegno di far conoscere altri lavori del musicista francese, ad esempio “Djamileh” o “La jolie fille de Perth”, che secondo qualche critico sono, almeno nel profilo musicale, superiori.
La genesi dei “Pescatori di perle” è molto veloce. Non appena il Ministero delle belle arti accordò una sovvenzione al Théâtre-Lyrique di Parigi affinché allestisse un’opera nuova scritta da un giovane compositore che aveva beneficiato del Prix de Rome, il direttore Carvalho, che reggeva le sorti di quella sala, si rivolse nel marzo o aprile 1863 a Bizet, allora venticinquenne, e gli chiese di consegnare la partitura in tempo per mandare in scena l’opera in settembre. Il compositore non perse l’occasione, mise da parte l”Ivan IV”, un melodramma che aveva già quasi finito, e dedicò tutte le energie al nuovo lavoro. Benché avesse ricevuto il libretto solo in giugno, a metà agosto la partitura era pronta e la prima rappresentazione, dopo vari rinvii dovuti a indisposizioni della cantante designata per la parte di Leila, la protagonista femminile, avvenne il 30 settembre, con esito favorevole.
È vero che Bizet componeva sempre rapidamente, favorito anche da una memoria prodigiosa, tuttavia il tempo che gli occorse per dar vita ai “Pescatori di perle” stupisce per la brevità. L’assillo di finire il lavoro ebbe purtroppo qualche ripercussione sul valore della musica. Accanto a pagine in cui appare inequivocabilmente la maestria del grande compositore ce ne sono altre che, pur mantenendosi su un livello decoroso, risentono della fretta. Tra le prime, oltre all’aria trasognata del protagonista maschile “Je crois entendre encore” (un tempo popolare anche in Italia: “Mi par d’udire ancora”) menzionerei il duetto del secondo atto tra i due innamorati, che ha momenti lirici assai belli, e alcuni numeri puramente orchestrali, come il preludio, dolce e armonioso, e la descrizione del fuoco nel finale del primo atto, dove i guizzi e i bagliori strumentali rispecchiano suggestivamente lo sfolgorio delle fiamme.
Nell’edizione vista a Parma la soprano Nino Machaidze (Leila) ha fatto un uso complessivamente lodevole di mezzi forti, taglienti, non sempre limpidi e un poco oscillanti. Il tenore Jesus Leon (Nadir) possiede una vocina con vibrato di tipo caprino, decisamente insufficiente per il personaggio. Tuttavia gli vanno riconosciuti alcuni meriti. È un bravo fraseggiatore e l’ha mostrato nella famosa aria del primo atto. Accede agli acuti con facilità e senza bisogno di spingere la voce. Mi ha fatto piacere sentire da lui i due acuti su “ivresse” emessi senza alcuna forzatura. Un elogio incondizionato merita il baritono Vincenzo Taormina (Zurga). Dal podio Patrick Fournillier ha privilegiato gli aspetti onirici della partitura; certamente in alcuni passaggi avrebbe dovuto conferire maggiore drammaticità alla parte orchestrale, tuttavia le deliziose melodie dell’opera, in modo speciale quelle riferite a Leila, sono state delineate con ammirevole morbidezza, come se fossero affettuose carezze musicali. Buone le prestazioni dell’Orchestra regionale dell’Emilia Romagna e del Coro del Teatro Regio di Parma, istruito da Martino Faggiani. Quanto alla parte visiva, le scene di Giorgio Ricchelli sono state molto semplici ma abbastanza adeguate mentre la regia di Fabio Sparsoli ha mosso encomiabilmente personaggi e coro.
Carlo Rezzonico
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