Ad Ascona un grande Schiff per un grande Beethoven
Spazio musicale
Il 16 settembre, nella Chiesa del Collegio Papio di Ascona, Andras Schiff ha eseguito la Sonata per pianoforte op. 111 di Beethoven. Ne ha messo in evidenza soprattutto i lati vigorosi e drammatici. In secondo piano invece ha posto alcuni passaggi moderati e inclini all’intimità. Così nel primo tempo il primo tema si è imposto inequivocabilmente come una rude, imperiosa e irriducibile manifestazione di volontà. D’altro lato quello che, a torto o a ragione, viene considerato il secondo tema, costituito da una breve figurazione discendente seguita da alcuni lievi ornamenti, mi è sembrato, non tanto una pausa di riflessione avente una funzione precisa nell’architettura del tempo, quanto una semplice transizione, in attesa dell’improvviso grappolo di note in fortissimo che erompe subito dopo. Anche nel secondo tempo, che usa, sia pure assai liberamente, la forma del tema con variazioni, la tempra dell’interprete si è fatta sentire chiaramente, ad esempio nella terza variazione, diventata un impressionante uragano di note. Dove però la partitura assolutamente lo richiedeva non sono mancati momenti di ineffabile poesia. L’esposizione del tema del secondo tempo è stata incantevole per morbidezza e dolcezza. Delle prime due variazioni il pianista ha messo in valore ammirevolmente le preziosità ritmiche e armoniche. La seconda parte della quarta variazione, dove il discorso musicale spicca il volo e si libra in una ornatissima e levissima melodia a biscrome, ha attinto il sublime. La conclusione della sonata poi, tutta percorsa da trilli, si è espansa in una grandiosa visione trascendente.
La serata, comprendente esclusivamente musiche di Beethoven, è stata aperta da Sei bagatelle op. 126, nelle quali il pianista, senza l’irruenza che poi avrebbe portato nella Sonata op. 111, ha messo in luce un’altra sua grande dote: quella di conferire alle melodie una squisita cantabilità, facendole fluire dalle sue mani in modo deliziosamente sciolto e naturale.
Moltissimo ci sarebbe da dire sulla seconda parte del concerto, dedicata a quell’imponente monumento di arte pianistica che sono le Trentatré variazioni su un tema di valzer di Diabelli op. 120. Di nuovo il talento dell’interprete è apparso in tutti gli aspetti della composizione. Mi limito a citare la ventiduesima variazione, costruita su un famosissimo motivo mozartiano, della quale il pianista, con felice intuizione, ha sostanzialmente modificato il carattere, facendone uno stringatissimo, sferzante e avvincente episodio musicale. Cito anche, per fare un esempio opposto, la ventiquattresima variazione, designata “fughetta”, suonata tutta con grande semplicità e mano leggera: una lettura che è stata un modello di trasparenza, tale da permettere all’ascoltatore di individuare senza sforzo le strutture contrappuntistiche del brano. Al termine del minuetto finale una corona lunghissima ma significativa ha suggellato l’esecuzione come se fosse un segno di rincrescimento per la fine di un così alto godimento o un invito a meditare ulteriormente.
Il concerto era nel quadro delle Settimane musicali di Ascona. Chiesa esaurita, applausi intensissimi.
“Otello” a Como
Non è facile allestire l’”Otello” nei nostri tempi. Ne sa qualcosa il Teatro Regio di Parma, che l’aveva annunciato per il Festival Verdi 2012 e poi ha dovuto sostituirlo in fretta con una edizione (peraltro assai bella) del “Rigoletto”. Ora il Teatro Sociale di Como – AsLiCo ha osato l’impresa e pur con mezzi limitati è riuscito a conseguire risultati convincenti. Per la temuta parte del protagonista ha fatto ricorso a Walter Fraccaro. Questo cantante possiede un tipo di voce che rammenta quello di Mario Del Monaco: timbro scuro, centro sostenuto, acuti facili e squillanti, potenza notevole. Del suo illustre predecessore ricalca anche qualche difetto, come la tendenza ad aprire troppo le vocali e a trascinare i fraseggi. Dotato di temperamento forte, è stato in ogni caso autore di una prestazione ammirevole. A uno Jago pressoché perfetto ha dato vita Alberto Gazale, usando intelligentemente la sua voce robusta, ma anche duttile e capace di finezze, per far emergere tutte le peculiarità del perfido personaggio. Si è distinto tanto nei momenti di forza (il “Credo”) come pure in quelli, più confacenti a un subdolo intrigante, delle insinuazioni, delle allusioni e dei sussurri (il sogno di Cassio). Daria Masiero ha mezzi scarsi di volume e di smalto, ma va ugualmente elogiata per la non comune sensibilità interpretativa. Nel quarto atto ha saputo toccare il cuore degli spettatori, ricevendo l’unico applauso a scena aperta della serata (scrivo sulla rappresentazione del 26 settembre). Giampaolo Bisanti ha diretto in modo più che encomiabile. In campo strumentale un momento di grazia è stato l’accompagnamento al sogno di Cassio narrato da Jago, dove l’orchestra (quella dei Pomeriggi musicali di Milano) ha prodotto sonorità meravigliosamente vellutate in una atmosfera veramente onirica. Corretto il coro istruito da Antonio Greco.
L’allestimento spartano ha rinunciato quasi completamente alle scene, ridotte a una pedana girevole collocata al centro del palcoscenico, ma la conduzione dei personaggi è stata adeguata. È piaciuta l’idea del regista (Stefano de Luca) di mettere in primo piano Jago, il personaggio che tesse l’intera vicenda: questi si è presentato prima ancora che l’orchestra desse l’attacco, ha seguito con fremente partecipazione le turbolenze che precedono l’arrivo di Otello e ha dominato tutte le scene fondamentali.
A parte i soliti tossitori (i quali hanno alquanto disturbato l’inizio del quarto atto, poi, non appena il dramma di Desdemona è entrato nel vivo e si è fatto commovente, tutti sono miracolosamente guariti; segno che i colpi di tosse, con un poco di buona volontà, potevano essere evitati anche prima) il comportamento del pubblico, molto numeroso e in buona parte assai elegante, è stato esemplare: ha rinunciato agli applausi a scena aperta (eccettuato quello di cui si è detto), ha seguito l’opera con la massima attenzione e ha fatto partire gli applausi solo dopo che l’orchestra ha eseguito l’ultimo accordo. Alla fine successo vibrante.
Verdi
Gli operisti italiani dell’Ottocento concentrarono l’attenzione sulla melodia. Gli accompagnamenti vennero limitati a pochi tocchi aventi una funzione ritmico-armonica povera. Nonostante la rinuncia a molte risorse dell’arte musicale crearono brani e in certi casi interi melodrammi sublimi. Conseguirono così un risultato straordinario e ammirevole: diedero vita a valori artistici di grande rilievo, però in modo tale che, grazie alla loro semplicità, fossero accessibili a una larga parte della popolazione. In questa estensione delle possibilità di godimento musicale a un pubblico vasto Verdi occupa incontestabilmente il primo posto. Nel momento in cui si celebrano i duecento anni dalla nascita mi pare giusto mettere un accento su questo aspetto della sua attività. Wagner, anche lui nato due secoli fa, creò capolavori non inferiori a quelli di Verdi, ma per apprezzarli è indispensabile approfondire l’idea filosofica che ne sta alla base, mandare a memoria i motivi conduttori o almeno mettersi in grado di riconoscerli e saper percepire valori ritmici e armonici assai complessi. Non meraviglia che la popolarità del Bussetano sia largamente superiore, perfino nei paesi di lingua tedesca. In Germania mi capitò di assistere a stupende esecuzioni di opere di Wagner davanti a sale debolmente occupate e d’altra parte a mediocri esecuzioni di opere verdiane a teatro esaurito.
Vorrei però precisare che la moderazione dei compositori italiani nell’suo delle risorse musicali non deriva necessariamente, come spesso si afferma, da incompetenza ma rappresenta una scelta. Lo dimostrano parecchie grandi finezze che di quando in quando sbocciano nelle loro partiture. Ad esempio penso, nel caso di Verdi, all’accompagnamento della scena tra Rigoletto e Sparafucile, dove l’uso di un contrabbasso e un violoncello con sordina all’unisono, l’aggirarsi su e giù della melodia e il ritmo puntato creano una atmosfera fosca, sorda, minacciosa, foriera di tragedia oppure penso al punto del “Trovatore” in cui il racconto di Azucena entra nel vivo e i primi violini rievocano il motivo di “Stride la vampa”, portando fremiti rabbrividenti (il passaggio è da suonare in un “pianissimo” segnato con tre “p”; ne prendano atto quei critici d’Oltralpe per i quali Verdi è sinonimo di fragore).
Menziono anche il “Falstaff”, che è tutto uno scrigno di meravigliose sottigliezze, tuttavia senza escludere il dominio della melodia; anzi proprio nel “Falstaff” c’è la melodia verdiana secondo me più straordinaria, quella sulle parole: “E il viso tuo su me risplenderà come una stella sull’immensità”.
Carlo Rezzonico
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